Regia di Florestano Vancini vedi scheda film
Il film di Vancini dimostra come il buonismo sia nato molto prima che Veltroni assumesse la leadership - per così dire - intellettuale della sinistra italiana. Lo stile del film è abbastanza piattamente televisivo e, pur ispirato a un cattolicesimo vagamente manzoniano (che risente dell'"Albero degli zoccoli") e di un socialismo, derivato sì da "Novecento", ma più terragno e meno arrabbiato, offre pochi palpiti, la maggior parte dei quali nella scena, commovente, in cui la postina consegna il telegramma che annuncia la morte in guerra di Ligio, il fratello di Venanzio, il personaggio principale. Rimane, così, un po' annacquato, anche a causa della banalità della maggior parte dei dialoghi, il messaggio fondamentale del film, che non è legato soltanto alle tematiche dello sfruttamento rurale o ai buoni sentimenti del tempo che fu, ma soprattutto alle possibilità di libertà che offriva la vita di campagna. I casolari della Bassa Padana si aprivano su scorci brulli ma pressoché sterminati: il comprensibile e inevitabile anelare dell'uomo ad una vita più comoda (quella degli scariolanti e dei braccianti era veramente insopportabile) l'ha portato, piano piano all'inurbamento, che ha comportato il rinchiudersi negli spazi, spesso angusti, delle città. Il finale amaro del film suggella questa morale da riflessione postindustriale, ma nonostante la bravura di un giovane Massimo Ghini, tutto il discorso rischia di restare offuscato nella mediocrità della messinscena.
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