Regia di George Roy Hill vedi scheda film
È facile, in un film, utilizzando il realismo delle immagini, rappresentare lo scempio che la guerra opera nella carne, smembrando i corpi e sfigurando i volti. Ben più difficile è descrivere, cinematograficamente, il disordine che la guerra causa nel pensiero razionale, nella percezione del mondo, nel senso del tempo. Uno scompiglio che non produce necessariamente la follia, la perdita di senno, bensì innesca un processo di assestamento dell’intelletto su una logica sovvertita, che includa l’esistenza dell’orrore e, magari, una sua accettabile motivazione. Il soldato americano Billy Pilgrim ha conosciuto l’atrocità come prigioniero in Germania e, soprattutto, in quanto testimone del devastante bombardamento di Dresda: lo spettacolo della crudeltà senza limiti ha estirpato in lui, insieme alle certezze radicate nella consuetudine, la naturale propensione ad abbandonarsi all’evidenza delle cose normali e tranquille. L’abitudine a distogliere lo sguardo per non dover credere ai propri occhi, o per cercare un perché oltre i confini del visibile, è diventato il suo nuovo modo di elaborare i dati dell’ambiente circostante: nella sua mente, ogni situazione rimanda automaticamente ad altro, ad un trauma subito che si trasforma in allucinazione, ad un desiderio represso che dà vita a un’utopia. Gli stimoli si fondono e si concatenano secondo il principio della similitudine, che azzera le distanze spazio-temporali e crea una storia fatta di singoli istanti e sprazzi di idee: un collage che trae la propria coerenza dall’esperienza individuale, e risulta del tutto incomprensibile al di fuori di essa. Dentro l’animo di Billy, i ricordi e le emozioni realizzano quei collegamenti che gli osservatori esterni non possono cogliere: solo in lui si riuniscono i capi di un discorso che, per il resto del mondo, è assolutamente slegato e confuso. Le sue fantasie sono i ponti, costruiti ad arte, tra la notte del passato e la luce del presente, tra l’incubo impossibile che ha vissuto anni addietro e la futile leggerezza del tempo di pace da cui oggi si vede circondato. Far combaciare due termini così inconciliabili richiede facoltà straordinarie: autentici superpoteri, tali da consentire di prevedere il futuro fino a farlo veramente esistere, in una dimensione a cui nessun altro ha accesso. Le visioni di Billy non sono il frutto di un libero vagare dell’immaginazione, ma sono il risultato di un’operazione di completamento sintattico, che risponde alla naturale esigenza di radunare i pezzi sparsi, per comporli in un quadro plausibile ed organico. La combinazione risultante è un sistema di concetti dalla struttura stringente ed essenziale: tale è l’origine dello strano universo onirico di questo film, che è insolitamente scarno, pur non essendo basato su un linguaggio simbolico. Il minimalismo di Mattatoio 5 segue il preciso e paziente cammino del metodo analitico, che associa e ricostruisce con criteri illuminati e rigorosi. Nel romanzo di Kurt Vonnegut, come nel film di George Roy Hill, la narrazione presenta la nitidezza e la complessità della scienze esatte, adottando il loro schematismo creativo, che spiega e si esprime facendo leva sulla nostra innata capacità di astrarre ed intuire. In questo modo, trascrive la traccia del dolore su una sorta di rete neurale, in cui ogni ramificazione è il percorso ideale di una speranza infinita, di una gioia sfumata, di una salvezza da inventare.
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