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Hud il selvaggio

Regia di Martin Ritt vedi scheda film

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La recensione su Hud il selvaggio

di scapigliato
10 stelle

Il cinema americano, spesso e volentieri ispirandosi a opere letterarie, ha riattraversato i sentieri del West decenni dopo la sua famosa epopea. L’intenzione di certe operazioni può essere da un lato di raccontare la vita e i personaggi di quell’America rurale né più né meno come se fossero in un vero western, quindi senza circoscrivere l’idea di genere ad un puro dato temporale; da un altro lato invece, l’operazione può servire per riflettere, metadiscorsivamente, sul genere stesso, la sua decadenza, i suoi miti, i suoi rituali, le sue linee di pensiero e di azione, con l’aggravante della rilettura moderna, quasi mai positiva, bensì nostalgica e critica.
È quello che succede con Hud di Martin Ritt. Preso da Larry McMurtry, un virtuoso della narrativa western d’autore – Owen Wister, per intenderci, diventa piccolo come una mosca a confronto – in cui “il selvaggio” protagonista interpretato da un Paul Newman in stato di grazia – l’equivalente, possiamo dire, di Marlon Brando in Un tram chiamato desiderio – è la coscienza nera di un’America marginale che fonda le proprie radici nel magma misterioso dell’epopea western, dove il rimosso e l’enigmatico, il parricidio e il senso di colpa storico e atavico dei primi americani innervano non solo la narrazione, quanto tutto l’impianto critico sia del film che del New Historicism, che getta ombre, e non rosse, bensì bianche e very WASP, su tutta la storia nazionale americana.
Se il film narra la storia di Hud, anima ribelle, ossessionato dalla compulsione allo scontro fisico e verbale, alla conquista erotica, alle corse veloci in macchina, all’abuso di alcol e alla riottosità verso tutto ciò che lo separa dalle purezza del vecchio West, nonostante poi si conceda alla truffa e all’inganno tipici dell’epoca affarista moderna, se il film racconta tutto questo con ampio uso del mélo e della tragedia famigliare, Hud non è soltanto un personaggio cinematografico, non è soltanto un agente del disordine, un atomo impazzito interno ad una narrazione, ma è l’ombra junghiana che al pari delle ombre, stavolta sì rosse e nere, dei soprusi razziali, dei genocidi e della schiavitù, riemerge dal passato per destabilizzare la tranquilla vita rurale, quella tipicamente americana, quella da cartolina e da spot pubblicitario, insomma quella di propaganda.
Attraverso pochi luoghi comuni del genere western, Hud mette alla berlina sia gli animi ribelli che tanta America ha partorito, sia i loro padri, in un continuum critico di rivitalizzazione del mito archetipico del parricidio, un lusso tutto statunitense. Uccidere il padre è una delle serpi velenose che strisciano in bassocontinuo nella cultura americana, e in Hud il conflitto emerge potente, peggio che in Gioventù bruciata, ancora più radicalmente che in Anello di sangue, dove un giovane e già straordinario Gene Hackman doveva proprio confrontarsi con Melvyn Douglas, padre padrone che anche in Hud assume i toni del “vecchio” convitato di pietra. Non ancora morto, non ancora ucciso simbolicamente dal figlio ribelle, il vecchio Douglas è uno spettro, un fantasma, un vecchio cowboy, un vecchio ranchero, ancora legato ad una società primitiva, fatta di onori e discipline. A cozzare quindi, non è tanto il valore di una società contro l’altra, disciplina contro ribellione. No, a cozzare tra loro sono le corde scoperte di quelle nervature che nella loro sfacettatura, nel loro non-monolitismo, rendono il “corpo americano” un corpo nudo, esposto, febbrile, mai pacificato.

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