Regia di Blake Edwards vedi scheda film
C’è tutto quello che il meccanismo del comico deve avere nel rappresentare situazioni provviste di autonoma vitalità inventiva e che sono al tempo stesso interventi critici sulla realtà.
Peter Sellers fa l’indiano, sì, nel senso di indostano, è Hrundi Bakshi, una comparsa (il regista voleva un vero indiano sul set, e cosi…) e suona la tromba durante un assalto a fuoco nel deserto.
Colpito a morte, continua a suonare fino allo sfinimento.
Il bello è che non doveva continuare a suonare, ma lui lo fa, immaginiamo come, e l’effetto comico comincia a crescere fin dalla prima sequenza.
Poco dopo praticamente distrugge il set perché si allaccia la scarpa poggiando il piede su un detonatore e da quel momento non c’è tregua, le gag si susseguono senza posa, ma a combustione lenta, slow burning, Edwards ci lascia il tempo di assorbire tutta la carica comica di una scena per poi passare all’altra, in un crescendo quasi insostenibile, fino all’apoteosi finale.
Il party nella villa opulenta del produttore hollywodiano è il nuovo set, stavolta reale, per le mirabolanti imprese di Hrundi, invitato per uno di quei meccanismi di ribaltamento del normale corso delle cose che sono alla base della fenomenologia del comico.
L’intento derisorio di un certo ambiente del cinema è evidente e forse non c’è neanche da soffermarsi più di tanto, il comico è eversione o non è, dunque il bersaglio è scontato, sono i riti e i miti di quel mondo di cartapesta, ma guai se l’intento didascalico si mostrasse prevalente, non staremmo a ridere a crepapelle a quarant’anni di distanza.
Chiediamoci invece quale sapiente mistura di ingredienti, capaci ancora oggi di divertirci, fanno di questo film un capolavoro del comico cinematografico, degno di stare alla pari con gli stracult del genere.
Innanzitutto lui, Peter (doppiato come al solito egregiamente dal grande Rinaldi) con la sua aria candida, a volte surreale, la gestualità perfetta per ogni occasione, la mimica facciale al giusto dosaggio, gli accessori glamour (vestito della festa con pantalone che si è fatto corto, cravatta-lenzuolo in tinta coi calzini arancio fosforescente, mocassino bianco che dà il via ai disastri in villa con piscina).
A far da corona a tanto capocomico c’è una serie di personaggi spalla, a loro volta generatori di comico: il cameriere beone che barcolla ma tiene bene fino all’ultimo, il maitre che lo vuol strangolare, l’attor giovane e molto macho con loock alla Elvis, il padrone di casa, inebetito da quello che accade, ma che intanto si preoccupa di salvare i quadri (uno Chagall l’aveva piazzato sopra il water, e il nostro Hrundi lo fa cadere dentro lo sciacquone!), la moglie fru-fru che cade a ripetizione nella piscina ormai invasa da una schiuma che si gonfia, si gonfia sempre più e dilaga ovunque, bioccoli di sapone in aria come neve, il tutto nato dalla necessità di lavare con acqua e sapone un bell’elefantino, arrivato alla fine anche lui sulla scena al seguito dei boys di casa, di ritorno dalla manifestazione (poteva mancare? siamo nel ’68).
Hrundi ha protestato per le scritte hippies che l’animale ha dipinte addosso, l’elefante è il suo animale sacro (“immaginate se mettessi barba e baffi al ritratto della moglie di Nixon!” è il suo grido di protesta), e allora tutti a lavarlo.
L’orchestrina continua a suonare imperterrita, la schiuma lambisce i suonatori ma nulla può fermarli, e la musica di Henry Mancini firma una colonna sonora gradevolissima, Nothing to lose accarezza l’udito, Hrundi trova forse perfino l’amore nella dolce Michéle Monet e quando tenteranno di acchiapparlo perché finalmente il tizio col parrucchino (proprio il regista che l’aveva radiato dagli studios dopo il disastro del set distrutto) l’ ha riconosciuto, volerà via con lei sul suo buffo macinino, appena un momento prima dell’arrivo degli inseguitori, senza assolutamente rendersi conto del macello alle sue spalle (davvero una coppia alla Chagall, vien da pensare).
C’è leggerezza in tutta la costruzione del film, c’è il gioco dell’intelligenza che risulta immediatamente creativo mentre inventa un mondo che ha per fine ultimo la gioia del riso spontaneo e combina infinite possibilità di rifrazione, infrazione ed espansione dell'esperienza reale.
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