Regia di Joseph Warren (Giuseppe Vari) vedi scheda film
Fortemente melodrammatico, caricato di una disperata e ineluttabile tragicità che lo allontana espressivamente dal western americano, il Deguejo di Giuseppe Vari ha ancora un piede nel modello classico originale, non permettendo così che i segnali di rottura appaiano più codificanti e incisivi di quello che potevano essere.
Siamo a Danger City e un gruppo di feroci banditi ha ucciso tutti gli uomini del villaggio lasciandovi solo donne e bambini. I pochi uomini superstiti sono stati rapiti dai bandoleros per essere torturati. Infatti, tra loro, c’è il Generale sudista Cook che sa bene dove si trova il famoso tesoro della Confederazione, che fa gola chiaramente ai loro aguzzinii. Sulle tracce di questo Generale però ci sono un manipolo di poveri uomini: Giacomo Rossi Stuart, figlio del caro amico di Cook da poco morto ammazzato da due uomini del capobanda dei banditi; Daniele Vargas, José Torres e strada facendo si unisce un damerino con il volto e il physique di Riccardo Garrone, fratello di Sergio qui in sceneggiatura - e si vede. Arrivati in città si trovano in un teatro di morte e disperazione, una vera città morta popolata di sole donne e qualche bambino malnutrito. Chiaramente la loro stanza in paese è determinata dalla vita del Generale Cook, ma anche dal probabile tesoro del Sud che fa gola anche a molti altri. A capeggiare i banditi c’è un grintoso Dan Vadis che qui ha un look azzeccatissimo, sobrio ma ugualmente messicanaccio. Parla poco, ma la sua presenza scenica è indubbia. Un gigante con la fissa del salutismo - si dice che sul set beveva solo caffé con cui forse si spiegano tutta una serie di pose e movimenti inusuali nella loro roboticità - che ruba la scena ad ogni altro personaggio, perfino a Riccardo Garrone che ricopre con misura e contegno un bel ruolo. Rossi Stuart invece, in uno dei suoi pochi ruoli da protagonista, è semplicemente funzionale alla storia e non arricchisce nulla come personaggio.
Il film è quindi sviluppato sul modello americano, non solo nella modulazione e nella tematica così come nel programmatico richiamo al deguello di Un Dollaro d’Onore, ma anche nella regia e nella fotografia il cui debito con i serial televisivi americani è evidente. Ad allontare il film dalla banalità della copia carbone è tutto il corredo di elementi bizzarri e outré rispetto il genere. Già lo scenario di morte della città popolata solo da donne isteriche, imbruttite e anche rese folli dalla violenza subita, ci porta già agli albori di quel taglio gotico e misterico che è stato il referente estetico per un numero considerevole di Spaghetti-Western eredi delle atmosfere orrorifiche dei film di Bava. Non è quindi un caso trovare in sceneggiatura Sergio Garrone che insieme a Margheriti sarà uno dei nomi di punta di questo sottofilone. In più concorre a rendere cupo e disperato il film una certa violenza che se non è proprio radicale ed esasperata come il genere ci ha insegnato, resta simbolica e melodrammatica, quasi gentile nei confronti dello sguardo dello spettatore, contribuento a dare un’atmosfera malata e fatale alla vicenda. Le donne che corrono incontro ai loro mariti torturati - tra cui Riccardo Pizzuti -, immagine che già ricorda da molto vicino un’orda di zombie pre-romeriani, e che muoiono con essi crivellate dai banditi di Dan Vadis è di per sè una scena sì di tragica ineluttabilità, ma non necessariamente violenta e disturbante.
Due sono gli aspetti che andrebbero considerati ulteriormente per poter ancor meglio valutare il film di Giuseppe Vari. Innanzitutto i tempi. Molto dilatati e inverosimilmente strabordanti il tempo narrativo convenzionale - e questo a prima lettura è un demerito perchè sempra piuttosto una deficenza della regia - i tempi sembrano, se così voluti dagli autori, voler dare al film un’atmosfera onirica, una specie di incubo non aggressivo, se non avvicinarsi addirittura al canone leoniano. In più, il film di Vari esce a febbraio del 1966, mentre il Django di Corbucci ad aprile del 1966. Il cruccio sta nella menomazione alle mani del personaggio di Rossi Stuart, menomazione identica a quella di Franco Nero. Sarebbe curioso capire se in fase di lavorazione uno ha influenzato l’altro e quindi chi ha avuto l’idea originale, oppure era la fertilità creativa dell’epoca a mutuare certe immagini. Nonostante i “vari” interrogativi Deguejo resta un film imprescindibile per atmosfere e discorsi, anticipando quell’ondata tutta italiana del sottofilone cosidetto gotico del nostro western misterico.
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