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Il colore del crimine

Regia di Joe Roth vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il colore del crimine

di degoffro
4 stelle

Dopo l’infelice esperienza con la commedia (il modesto “I perfetti innamorati”, il pietoso “Fuga dal Natale”, non ho visto i primi film ma non credo di essermi perso granché), il produttore Joe Roth si cimenta, per la prima volta nella sua carriera da regista, con un dramma poliziesco tratto da un romanzo di Richard Price (lo stesso autore di “Clockers” da cui Spike Lee ha tratto l’omonimo bellissimo film, ma anche sceneggiatore di classici come “Seduzione pericolosa” con Al Pacino e “Ransom” con Mel Gibson, del simpatico “Lo sbirro, il boss e la bionda”, oltre che de “Il colore dei soldi” di Scorsese per cui ha scritto anche il celeberrimo videoclip “Bad” con Michael Jackson). Forse sarebbe meglio che Joe Roth continuasse la sua carriera solo come produttore, anche se non si registrano nel suo curriculum capolavori nemmeno in questa veste, a meno che si considerino tali “L’ultima alba” con Bruce Willis o “The forgotten” ancora con la Moore. “Freedomland” ha pesantissimi limiti nei tre elementi essenziali di un film: attori, sceneggiatura, regia. Pessima è infatti la recitazione di una Julianne Moore più insopportabile che in “Lontano dal paradiso” dove peraltro era stata anche parecchio apprezzata dalla critica. Non sono mai stato un fan sfegatato della rossa attrice, ma non posso negare che in genere sia brava: in questo film, purtroppo, fa di tutto per dimostrare il contrario. La sceneggiatura (Price, bisogna ricordarlo, ha anche scritto il pessimo remake de “Il bacio della morte” con Nicolas Cage e i mediocri “La notte e la città” con De Niro, a sua volta remake di un altro classico del noir “I trafficanti della notte” di Dassin e “Shaft” con Samuel L. Jackson, rifacimento anonimo del poliziesco del 1971 firmato Gordon Parks - scrivere remake sembra ormai il segno distintivo di Price visto che, ahimè, è al lavoro sullo script di “36” dall’ottimo film di Marchal) è pretestuosa sotto il profilo della vicenda gialla, se così si può definire tutta la parte legata al presunto rapimento del bimbo della protagonista, di cui peraltro il poliziotto dubita fin da subito (non si capisce bene il perché); è approssimativa e loffia nel trattare lo scomodo ed esplosivo tema razziale (e qui ci sarebbe voluto proprio Spike Lee, citato esplicitamente in una battuta che richiama uno dei suoi titoli più famosi “Fa la cosa giusta”); è delirante in certi dialoghi pseudo religiosi (le sparate di Samuel L. Jackson sul fatto che tutto avviene per volontà di Dio sono piuttosto invereconde); è demenziale nel creare inutili parallelismi tra i due sfortunati protagonisti, come sottolinea il retorico, verboso e ridondante finale in carcere; è zoppicante nel perdere per strada personaggi che dovrebbero avere un ruolo di primo piano, come il fratello della protagonista; è macchiettistica nella definizione dei caratteri; è superficiale, ammuffita e stereotipata nell’affrontare un tema sulla carta anche intrigante (fingere un rapimento per coprire un delitto, incolpare del fatto un nero non identificato ed appartenente ad un quartiere dove di crimini del genere se ne verificano di continuo e sperare in questo modo che tutto possa sistemarsi, senza preoccuparsi minimamente della reazione a catena che quel gesto scriteriato può comportare in un ambiente già caldo di suo). La regia infine è scolastica, telefonata, convenzionale e poco incisiva, del tutto incapace di valorizzare la materia narrativa, ma soprattutto di far vivere sulla pelle dello spettatore il lacerante dramma della protagonista (la Moore fa di tutto per farsi detestare e il fatto che si lasci andare ad una recitazione così incontrollata è solo colpa di una regia senza polso) e la situazione incandescente in cui tutta la vicenda si sviluppa (la rivolta finale è pretestuosa e posticcia). Quanto al ritratto di un’America allo sbando, ferita e sconfitta, piena di contraddizioni e paure, di cui il personaggio della Moore dovrebbe essere l’emblema, è edulcorato, didascalico, per nulla sincero e onesto. Meglio vedersi al riguardo “Gone baby gone” di Ben Affleck. Si salvano la discreta prova di Samuel L. Jackson, purtroppo alle prese con un carattere mal definito (sarebbe stato opportuno approfondire meglio il rapporto conflittuale con la comunità nera nella quale è cresciuto e dalla cui gente viene ora spesso guardato con sospetto dato il suo ruolo di poliziotto, mentre il confronto con il giovane figlio in prigione serve solo per aumentare le dosi di flaccido e retorico patetismo), il bel personaggio di Edie Falco (a sua volta avrebbe meritato più spazio e il breve episodio in cui, straziata dal dolore ma composta nella sua sofferenza, racconta della perdita del figlio e del conseguente disfacimento della sua famiglia vale molto di più delle paradossali, urlate e fasulle sceneggiate di un’isterica Moore), qualche suggestiva inquadratura d’ambiente (la visita all’orfanotrofio abbandonato in mezzo al bosco nel quartiere di Freedomland). Il resto, purtroppo, è irritante e vuota noia. Cast tecnico, come quello artistico, di prestigio (produzione di Scott Rudin, musiche di James Newton Howard, scenografie di David Wasco, collaboratore di tutti i film di Tarantino, costumi di Ann Roth) ma risultato assai deludente. Piccola curiosità: originariamente il film avrebbe dovuto essere diretto da Michael Winterbottom.

Voto: 5

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