Regia di Rémy Belvaux vedi scheda film
“Questo non è un film sulla violenza. È un film sull’arte di fare cinema. E il protagonista non è un assassino. È uno a cui piace parlare davanti alla telecamera.” Con questa efficace sintesi, Rémy Belvaux, in un’intervista, commentava, insieme ai suoi amici André Bonzel e Benoît Poelvoorde, l’opera che avevano appena finito di girare: una pellicola autofinanziata, a bassissimo costo, realizzata da tre studenti di cinema come una provocatoria sperimentazione sul campo di quanto avevano imparato in un corso sul documentario. È così, un po’ per scherzo, che il politicamente scorretto diventa una cinica storia in cui si uccide per divertimento, per distrazione, per abitudine, per fare scena, per vincere la noia. Un serial killer e la troupe cinematografica che lo segue in diretta diventano complici di una serie di omicidi crudeli ed assurdi, vissuti come bravate, che all’inizio fanno sensazione, ma poi col tempo creano assuefazione, diventando poco più che una fastidiosa routine. Alla fine, a tenere vivo lo spettacolo, ormai scontato e ripetitivo, sono soltanto i fiumi di parole che il protagonista riversa sulle immagini, raccontando di sé, delle proprie gesta, delle proprie emozioni, anticipando l’eloquenza trash dei reality e dei talk show. D’altronde, nella moderna società dei mass media, ciò che meno conta sono i fatti: l’occhio dello spettatore vuole sì vedere, ma non importa cosa, e ciò che accade è, di per sé, un dato anonimo, perché la verità è una questione di interpretazione, il bene il risultato di un abbellimento retorico, il male la conseguenza della denigrazione, la gioia il prodotto di una battuta che gira il tutto in burla. Questo film rappresenta magistralmente il clamoroso paradosso su cui si fondano le odierne politiche della comunicazione, che prescrivono di mostrare tutto, e tutto camuffare, sovrapponendo all’orrido ghigno del mostro il grottesco belletto di un clown che sorride.
Il film, premiato dalla critica al festival di Cannes, suscitò, però, molte polemiche per la sua crudezza; fu sottoposto ai tagli della censura e la sua distribuzione venne ostacolata. A metterlo in ombra contribuì anche la contemporanea uscita di altre due opere altrettanto “forti”, quali Le iene di Quentin Tarantino e Benny’s Video di Michael Haneke. Oggi nessuno parla più de “Il cameraman e l’assassino”, che corrisponde perfettamente al cliché del film “maledetto”: è stato il primo e unico film di Rémy Belvaux, che abbandonò il cinema subito dopo averlo terminato, e morì suicida all’età di 39 anni.
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