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Beat Street

Regia di Stan Lathan vedi scheda film

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Stefano L

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La recensione su Beat Street

di Stefano L
7 stelle

 

Fra tutte le pellicole dedicate alla cultura hip hop old skool, questa, sicuramente, è la migliore, e quella che rappresenta meglio lo spirito "street style" dei giovani newyorkesi degli anni ottanta, "discepoli" di questa nuova tendenza dei ghetto, la quale cambiò per sempre il modo di concepire e realizzare musica. Il contesto che viene messo in luce si allontana parecchio dai luoghi comuni della comunità afroamericana. New York City non è quella città patinata di matrice hollywoodiana che siamo abituati a vedere, e la regia ci mette sotto gli occhi un Bronx che, fino a quel momento, era quasi completamente inedito al pubblico del vecchio continente: quello delle jam session a ritmo di scretch e tecniche di turntablism organizzate negli edifici abbandonati, degli originali MC che si esibivano alle feste con il loro avveniristico freestyle ed i beat-boxer, o delle gare di danza fra i giovanissimi gruppi di break dancer come i Rocksteady Crew, e i New York City Breakers. Guy Davis invece interpreta uno dei primi disc jockey che cominciarono a produrre musica in prima persona con l'uso di pattern e sintetizzatori (prima forma di house music?). Il genere, più che il Rap nello stampo più classico, è prevalentemente l'electro funk (sotto-genere dell'hip hop, ormai estinto, che univa la metrica del break tempo con i suoni delle Roland 808): particolarmente in auge nelle discoteche americane poco prima che si affermasse definitivamente, nella tarda metà del decennio, la Chicago House di Marshall Jefferson e Steve "Silk" Hurley (se vi volete fare un'idea del tipo di sound, vi consiglio di ascoltare in streaming la radio "WBMX hot mix classics"). Naturalmente, l'inventore di questo stile di dance music, Afrika Bambaataa, fa la sua bella comparsa in una scena all'interno del Roxy assieme ai suoi "Soulsonic Force" (dall'abbigliamento veramente esilarante!! E poi, tra i "rapper" attuali, chi avrebbe il coraggio di preparare una performance così divertente?). Ci sono comunque molte altre nostalgiche "meteore" che hanno segnato la nascita e l'evoluzione di questa corrente: il lungometraggio si accentra sulla difficoltosa e utopistica traiettoria artistica che separa gli aspiranti debuttanti del circuito underground dal tanto ambito traguardo dello star system del mercato discografico. C'è anche una parte drammatica, legata alla storia di un giovane "graffiti writer" portoricano, ed una sottovicenda romantica, focalizzata sul legame tra il già citato dj e una studentessa, coreografa in un prestigioso college (Rae Dawn Chong, l'unica attrice "famosa" che ho riconosciuto). Il tutto viene confezionato da una fotografia coloratissma e vivace (in grado di catturare l'atmofera di questo variopinto scenario urbano) e un montaggio inebriante; lo script, ad ogni modo, non si allontana troppo dalla sua natura d'estrazione televisiva (il regista di Stan Lathan ai tempi fu molto attivo nell'ambito delle serie via etere statunitensi) e manca un po' di mordente. Storico e musicalmente sorprendente il finale, all'insegna di quello che fu l'ecletticismo multiculturale della Grande Mela.

 

 

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