Regia di Erik Skjoldbjaerg vedi scheda film
Lizzie, giovane, tormentata, ma TANTO brillante (a 18 anni è stata ammessa ad Harvard e scrive già su Rolling Stone... vi vedo già fare degli enormi "OOOOOHHHHHH" di sorpresa, invidia e profondissima ammirazione) porta con sé il terribile (e soprattutto originalissimo) dramma di due genitori separati quando lei era solo una bambina e scivola progressivamente nel male oscuro della depressione. Tra bizze, dispetti, narcisismi assortiti e piccoli e grandi sadismi nei confronti di una madre forse un po' frivola ma tutto sommato di buon cuore (una sempre brava Jessica Lange), alla fine di un accidentato (ma nemmeno poi tanto) percorso, la "simpatica" Lizzie finalmente scoprirà il Prozac e mentre lei giungerà alla illuminante considerazione che l'America è una nazione fondata sull'uso degli psicofarmaci, noi giungeremo all'ancor più sconsolante conclusione di aver sprecato un'ora e mezza della nostra vita. Dio ci scampi e liberi dalle storie autobiografiche sui propri tormenti interiori: troppo facile scriverle (l'ho fatto anch'io ma ho sempre avuto il buon gusto di tenermele nel cassetto) e troppo velleitario pretendere che possano essere significative o emblematiche di un discorso più organico, complesso o condiviso. "Prozac nation", tratto dal racconto autobiografico di tale Elizabeth Wurtzel, enfant prodige (sono ironico) molto compresa di sé stessa (non sono ironico), come si evince chiaramente dalle pose da modella nelle quali ama farsi ritrarre sulla copertina dei suoi libri e dal narcisismo che emerge dal suo ritratto e che, invano, la pur brava Christina Ricci tenta di stemperare con il paradosso di una interpretazione misurata di un ego strabordante. La realtà è che la vicenda della giovane Wurtzel è di una banalità disarmante, nonché priva di qualsiasi particolare interesse ed emblematica praticamente di nulla, se non dell'evidente e sincera antipatia che sucita una protagonista insopportabile ed egocentrica. Al di là delle mie idiosincrasie, il film del norvegese Erik Skjoldbjaerg è piatto, noioso e costruito un po' troppo furbescamente a tavolino per diventare una sorta di pellicola di culto generazionale (missione miseramente fallita, visto lo scarso successo rimediato). Speriamo che nessun regista di buon senso decida di riprovarci con l'imperdibile seguito letterario di "Prozac Nation", autobiografico of course, tradotto in Italia col titolo di "Vertigine", che racconta come la non più tanto giovane Lizzie (ma sempre terribilmente brillante), guarita dalla depressione, sia piombata nella dipendenza da farmaci e droghe... non vediamo l'ora! Voto pessimo.
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