Regia di Pablo Trapero vedi scheda film
Argentina, terra di esilio e di corruzione. Pablo Trapero racconta una storia contemporanea, ma dal gusto antico, intinta in quel realismo umido di pianto e pioggia che rimanda ai primi vagiti cinematografici delle aree depresse del pianeta. La storia di Enrique Orlando Mendoza, detto Zapa, in effetti, è un percorso contrario rispetto alla direzione del progresso: un cammino che lo porta dalla campagna alla città, dal mestiere di fabbro alla professione di funzionario statale procurandogli soltanto solitudine, e un diffuso malessere del corpo e dell’anima. Dopo essere involontariamente finito nei guai, la raccomandazione di uno zio gli consente quella che, a prima vista, sembra una via di fuga, unita ad un’ascesa sociale: la possibilità di frequentare, a Buenos Aires, un corso per diventare agente di polizia. Il mondo di cui entra a far parte non è quello che si immaginava: è un ambiente fatto di persone demotivate e mediocri, che giocano con le armi e attraverso di esse stabiliscono il proprio potere sul territorio. L’obiettivo di Trapero rimane rigorosamente all’interno degli uffici, delle stazioni, dei campi di addestramento che costituiscono un universo a sé stante, disgiunto dalla popolazione a cui dovrebbe fornire protezione. La città è là fuori, ma è soltanto un terreno di caccia, pieno di balordi e piccoli delinquenti, prede facili che nessuno verrà a reclamare. Questa realtà è estranea tanto al concetto di istituzione, quanto al principio di servizio alla cittadinanza. Né detective, né vigili urbani, i colleghi di Enrique formano soltanto un esercito senza regole, che pratica, con la stessa naturalezza, l’indolenza e il tiro a segno. Non ci sono indagini da far progredire, ma solo carriere da far avanzare, tra poliziotti ci si ama, ci si odia, si festeggia, si beve, si scherza e si combatte, come se, al di fuori di quella cerchia di persone in divisa, non esistesse nessun altro essere umano. Enrique diventa l’amante di una sua istruttrice, nonché il protetto del commissario capo, e questi sono gli unici rapporti che riesce ad instaurare. La famiglia è un lontano ricordo, perché la seduzione di quel circolo così elitario ed autarchico lo ha completamente circuito. È esclusivamente in virtù della sua posizione all’interno del gruppo che Enrique si sente qualcuno, all’altezza del proprio ruolo, e universalmente riconosciuto come tale. L’alienazione può accompagnare anche la crescita personale, il riscatto da una situazione di svantaggio: Enrique comincia a perdersi proprio nel momento in cui, superando le difficoltà di ambientamento, si separa dalla sua figura di goffo ragazzotto di provincia per diventare un uomo: un concetto definito da un meccanismo esterno, che lo plasma a sua immagine e somiglianza. Per lui non c’è deriva morale, ma semmai un adeguamento ai requisiti previsti per appartenere alla casta. Quello sudamericano è un cinema intimista, che riesce a donare un’espressione letteraria agli analfabeti, ed una poetica eloquenza al silenzio. Ma, questa volta, tutto tace. Le parole sono vane, il distacco nella narrazione non è una rispettosa obiettività, ma solo una sofferta reticenza. Enrique è un personaggio parlante, eppure muto, di cui non ci è dato di sapere nulla. È anonimo nel suo conformismo imbelle, dimentico di sé per piacere al sistema. Eppure non siamo di fronte all’esistenza asettica di un robot: la sua disumanizzazione è fatta di cose molto umane e concrete, come il sesso e la lotta per la sopravvivenza. Enrique diviene schiavo di una logica, però è fondamentalmente un selvaggio; è un soggetto allineato nell’indisciplina e nella mancanza di valori. È un vuoto che si fa colmare dall’automatismo delle gratificazioni. Una condizione che condivide con tutti i suoi simili, e che si manifesta con un linguaggio nel contempo scarno e delirante. El bonaerense è il resoconto di una metamorfosi che finisce in naufragio, ma senza fare rumore. E contiene un’apoteosi del male, che però non fa scintille. Lo squallore, d’altronde, è la scoria in cui decade la semplicità, quando a sorreggerla non c’è più il sentimento.
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