Regia di Nicolas Roeg vedi scheda film
Il bambino gioca vicino a delle rocce. Urla "Bang, bang!" sparando con la pistola ad acqua a un aereo che passa lontano, poi spara verso la macchina. Un proiettile vero esplode alzando polvere e schegge di roccia a un palmo dal bambino. Il piccolo sorride al genitore che dall'auto gli punta addosso l'arma.
"Faites vos jeux."
Ci scostiamo da un muro di mattoni e un "didgeridoo" comincia a ronzare in giro per la grande città, moderna, brulicante, ordinata, assolata, consueta. Ragazze che fanno esercizi fonetici. Professionisti, palazzi di vetro. Scolaresche in divisa. Un condominio con piscina azzurro fluorescente in riva al mare verde scuro. Sole a picco. Una madre prepara da mangiare mentre la radio descrive una prelibatezza per cui bisogna uccidere un volatile affogandolo nel cognac. "Guarda, papà !", fa un bambino di 5/6 anni dalla piscina. Il padre in terrazza fuma, beve e non dice niente.
Il maggiolino Volkswagen nero esce dalla città e procede sollevando polveroni nell'arido "Outback". Dentro l'auto il suddetto padre si volta a dire al figlio che mangia caramelle di non parlare con la bocca piena, poi spegne la radio portatile della figlia adolescente seduta accanto a lui. Quando si fermano il padre resta in macchina a leggere documenti di geologia e la figlia si occupa di allestire il picnic. Il bambino gioca vicino a delle rocce. Urla "Bang, bang!" sparando con la pistola ad acqua a un aereo che passa lontano, poi spara verso la macchina. Un proiettile vero esplode alzando polvere e schegge di roccia a un palmo dal bambino, il quale sorride al genitore che dall'auto gli punta addosso l'arma. Subito la sorella si precipita a trascinare il bambino dietro le rocce mentre il padre confusamente (ma con aplomb tutto britannico) cerca di convincerli ad uscire: "Si sta facendo tardi...non possiamo perdere tempo...dobbiamo andare..devo andare..." Dopodiché tira fuori una tanica dall'auto, le dà fuoco e si spara.
Qui inizia il cammino della ragazza e del bambino attraverso il deserto, il cosiddetto "bush" e una serie di sorprendenti scenari naturali. Quando le condizioni si faranno critiche a salvarli e guidarli sarà un giovane aborigeno che sta facendo il "walkabout" (titolo originale), un lungo viaggio che gli aborigeni australiani compiono abitualmente per trovare animali da cacciare o per raggiungere tribù distanti.
L'INIZIO DEL CAMMINO è prima di tutto un'affascinante sinfonia in cui le diverse discipline sono accuratamente intrecciate, contrappuntate, equalizzate e private di un ego esibizionista. Una specie di suite per arti varie in cui la storia serve a dare una direzione chiara ma non può dar conto di un'esperienza nata per essere primariamente "di sintesi". Non è un film apertamente sperimentale, per quanto abbia momenti in cui tocca territori di confine. Roeg non si propone di essere antinarrativo, nè criptico, nè provocatoriamente anarchico. Adopera piuttosto degli accorgimenti per sfumare all'occorrenza le parti dei suoi strumenti in modo che nessuna prenda il sopravvento nell'indirizzare l'attenzione. Il soggetto, così attentamente orchestrato, sembra parlarci soprattutto di una natura unitaria (secondo una specie di filosofia pan-naturalistica) e il cammino diventa uno svolgersi di diversi momenti nella percezione, ricomposizione e (ri)dissoluzione di questa unità.
La trama, elemento solitamente preponderante e prepotente, viene "sfumata" attraverso l'uso di ellissi e di una narrazione in gran parte visiva e intuitiva. Ciononostante non ci sentiamo all'interno di in un universo astratto o esclusivamente metaforico.
La parola, ad esempio, è viva e presente ma con una serie di soluzioni astute viene trasformata in uno strumento meno dominante, più di caratterizzazione che di spiegazione. Innanzitutto il commento principale è affidato alla voce del bambino, con le sue domande, la sua visione ancora "magica" delle cose, il suo essere un foglio bianco che apprende ed elabora (ad alta voce) per la prima volta. La sorella ha voce ma quasi tutto quello che dice è a suo beneficio, per salvarlo da asprezze, assecondarlo, fingere normalità. Inoltre anche lei, in quanto adolescente, ha ancora quell'aria svagata/sognante che rende plausibile il suo aderire (esteriormente o anche completamente) al mondo del fratellino. Di conseguenza tramite i protagonisti non viviamo gli eventi come drammi da indagare e spiegare, li viviamo piuttosto secondo le logiche e le reazioni ancora indefinite delle età incoscienti della vita.
C'è poi la comunicazione col ragazzo aborigeno. Anche qui la parola non serve a spiegare, ma ugualmente ognuno continua a parlare la propria lingua mescolando in maniera libera commenti pratici a pensieri più intimi detti ad alta voce (come fa il bambino, che però lo fa dal principio). La cosa, oltre ad essere una risorsa per conoscerli più a fondo, permette di creare alcune scene straniate e poetiche in cui i sentimenti espressi (di diffidenza affetto, turbamento) rimangono sospesi in aria senza trovare reazioni o risposte. Altre volte invece si ha la sensazione che i tre si comprendano comunque, e che in realtà non serva un tramite linguistico, come se anche loro partecipassero a un più ampio processo unificante in corso.
La mancanza di una lingua comune, sarà anche centrale nel finale, quando si definirà l'esito di questa strana famiglia in una bellissima scena sorprendente e "concretamente misteriosa" (perché radicata nelle tradizioni aborigene), scena che resta anch'essa "sospesa" e aperta a diverse interpretazioni senza tradire le diverse anime del film.
È interessante notare che, specularmente, all'inizio abbiamo l'episodio del padre che si spara, anch'essa scena sorprendente e decifrabile in diversi modi. Può infatti funzionare sia su un piano logico-realistico (problemi mentali, il padre si è dimostrato assente e confuso) che su un piano metaforico-mitologico (la civiltà che si autodistrugge, il genitore-orco che nella favola mette in moto il rito di passaggio, il viaggio iniziatico). Gli episodi all'inizio e alla fine del cammino sono dunque, coerentemente con l'impostazione corale, entrambi composti da più voci, più livelli, e rappresentano quasi "naturalmente", staccandosi dalla pura concretezza, l'apertura e la chiusura di un'esperienza di più vaste proporzioni e suggestioni.
Il deserto, sotto lo sguardo minuzioso e inventivo di Roeg si anima all'inverosimile. Spuntano insetti ed animali placidi ma dai passi amplificati tanto quanto sono enfiate le loro dimensioni, da un esemplare all'altro, in un continuo divenire di colori e territori, il deserto, l'oasi inattesa e quasi impossibile, le formazioni rocciose, fino a un'esplosione di verde che quasi è un passaggio al fantastico. Qui il bambino ci racconta una strana storia crudele sulla mancanza di comunicazione mentre le inquadrature diventano pagine di un libro verde che si sfoglia col procedere del racconto. C'è poi una sorta di Eden, in cui la ragazza nuota nuda in uno specchio d'acqua. Si sovrappongono immagini del bambino e si alternano scene in cui il ragazzo aborigeno uccide gioiosamente le sue prede. Una specie di sintesi di vita secondo natura. Una nudità innocente come il volto sovrapposto del bambino e un rapporto diverso con la morte, non ipocrita ma rispettoso, come quello di chi caccia per sopravvivere.
La colonna sonora si avvale dei molti bei temi musicali composti dal famigerato John Barry che intercettano sensazioni di incertezza, smarrimento, pericolo, meraviglia; che annunciano vaghe impressioni naturali e celebrano la quiete dell'Eden. A questi si uniscono tocchi di Stockhausen e accenni di contaminazione elettronica che contribuiscono ulteriormente al notevole ventaglio di umori musicali. Devo dire che il lavoro di Barry nel complesso è ottimo e originale, ma il tema principale, quello più positivo (quello della speranza e dell'Eden), trovo personalmente che tenda al melenso e purtroppo è anche associato ad altri elementi molto carichi di solarità e positività. Questo è forse l'unico punto in cui, a mio modo di sentire, la regia perde un po' di quella clamorosa misura che per il resto dimostra per quasi l'intera lunghezza dell'opera.
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