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American Gigolò

Regia di Paul Schrader vedi scheda film

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La recensione su American Gigolò

di maso
8 stelle

La storia del cinema è stracolma di prostitute incarnate da attrici famose ma fino all'uscita di "American Gigolò" nessun attore aveva avuto l'onere e l'onore di dare vita ad un playboy di successo fra le straviziate signore della jet society, la chance capitò quasi di rimbalzo a Richard Gere dopo che per lungo tempo il candidato numero uno al ruolo di Julian Kay era stato John Travolta, per fortuna del film e della sua carriera la parte fu affidata a Gere che entrò di diritto con questa sua prova maiuscola nei personaggi memorabili del cinema hollywoodiano.

E' indiscutibile che Julian, il gigolò elegantissimo che studia lo svedese mentre fa le flessioni e veste da paura tutto firmato all'italiana, è un personaggio perfetto per i muscoli e la bellezza di Gere che ha saputo dargli anche un preciso tono caratteriale in bilico fra la solitudine e la disperazione, il cinismo e la dolcezza, la classe e l'incapacità di vivere una vita onestamente banale, il romanticismo e il sex appeal irresistibile.

Tutto qua? No affatto, perché "American Gigolò" è un neo noir praticamente perfetto nel quale Schrader ha riversato la sua passione per il vecchio cinema, si dice che l'ispirazione l'abbia avuta da "Pickpocket" di Bresson, cesellando un folto numero di personaggi per lo più negativi ed altolocati, incastonati in una trama gialla che poteva essere anche più intricata e ricca di svolte ma avrebbe impoverito la love story fra Julian e Michelle che è comunque rilevante nell'economia e la soluzione della storia.

Julian Kay si muove disinvolto fra le donne di Palma Beach e Beverly Hills, i suoi fornitori di appuntamenti sono incapaci di opporsi alle sue condizioni perché sulla piazza non c’è un altro stallone con le sue capacità e la sua presenza, Anne gli propone serate con donne attempate, Leon invece costituisce il suo background, la sua gavetta professionale per la quale si intuisce abbia dovuto anche accettare relazioni di stampo omosessuale e tutt’ora si presta a partecipare a incontri viziosi con mariti guardoni e mogli pervertite, c’è poi l’aspetto puramente avventuroso e mondano della sua professione che lo vede muoversi con nonchalance alle aste pubbliche di antiquariato, ambienti consoni alla sua passione per l’arte e per l’aggancio di qualche cliente in cerca di emozioni.

Schrader è davvero una grande penna e come in altri suoi film, non in tutti, ha avuto la lodevole capacità di trasfigurare in immagini gli ambienti tipici della Los Angeles post flower power in cui coesistono locali alla moda dai toni caldi dove Julian può sfoggiare il suo fascino che colpirà immancabilmente la bella Michelle, e balere tetre ingrigite dalla prima techno music frequentate dalla fauna gay di cui probabilmente Julian era un ospite molto desiderato, il film si sviluppa quindi su due piani narrativi perfettamente intersecati che si sovrappongono nel finale.

Julian si presta su richiesta di Leon a intrattenere una coppia di coniugi sessualmente deviati, ma pochi giorni dopo la donna viene trovata morta e tutti gli indizi costruiti portano a Julian; nel frattempo si sviluppa la relazione con Michelle Stratton, moglie infelice di un politico bruttarello che la tiene come ornamento al suo fianco, la donna si innamora pazzamente di Julian e in mezzo a tanto marciume questo sentimento suona come un fiore sbocciato nel fango sottolineato dal bel pezzo al piano eseguito da Giorgio Moroder diametralmente opposto dalle sonorità lugubri elettroniche che accompagnano il resto del film.

La storia d’amore con Michelle è lontanissima parente dell’amicizia fra Ratso e Joe Buck in “Un uomo da marciapiede” di una decina d’anni prima e dalla parte opposta dell’America ma che aveva comunque come protagonista uno stallone nella metropoli seppur di scarso successo rispetto a Julian Kay, ci sono poi altre situazioni felicemente ricostruite come il rapporto tagliente fra Julian e il poliziotto che lo vuole incriminare interpretato da un encomiabile Hector Elizondo: ha le stesse caratteristiche del legame fra il raffinato trafficante internazionale  incarnato da Fernando Ray in “The French Connection” al quale Gene Hackman dava la caccia, con la differenza che qui il protagonista è l’indiziato e si parteggia per lui ma il fatto che il malvivente sia perseguitato dallo sbirro anche perché vive una vita agiata e di successo mette le due coppie sullo stesso piano tanto che lo zelante sbirro di Palm Beach vuole carpire i trucchi del mestiere a Julian che senza mandarglielo a dire lo sbeffeggia dicendo “Per prima cosa lei si veste di merda”, un’altra scena di forte richiamo al cinema del passato è quella in cui Julian avvinto da una paranoia crescente ripete gli stessi gesti frenetici che Hanry Caul eseguiva in “The Conversation” demolendo il suo appartamento alla ricerca di una cimice mentre qui Julian cerca disperatamente il fagotto di gioielli che potrebbe incriminarlo definitivamente pur essendo del tutto estraneo ai fatti, ma quel microcosmo di donne allupate non ha nessuna intenzione di aiutarlo nel provare la sua innocenza se il prezzo da pagare è uno scandalo, in fondo Julian non ha amici ma solo clienti e datori di lavoro.

Queste riproposizioni stilistiche e contestuali non sono affatto inappropriate, anzi denotano un’ottima cura dell’immagine e un rispetto apprezzabile da parte di Schrader per il cinema americano, omaggiato esplicitamente con il posterone di “The Warriors” di Walter Hill alle spalle del galoppino di Stratton dopo un dialogo serrato con Julian al termine di una delle molte sequenze a spasso sui marciapiedi di Sunset Boulevard ripresi con un gusto del tutto rivettiano: Gere come seguito da un regista fantasma è in realtà pedinato da un personaggio della storia, in questo caso da qualcuno che lo tiene d’occhio, in un'altra situazione dai toni completamente opposti e distesi c’è Lauren Hutton che lo insegue fortemente perché innamorata di lui.

L’intrigo e la love story viaggiano sullo stesso binario fino ai due terzi del film, poi il giallo prende il sopravvento sul rosa, e il film diventa più claustrofobico, le immagini luminose di una L.A. solare diventano buie nottate con la polizia sullo specchietto retrovisore, l’alba a casa di Leon dove si svela il mistero, un risveglio tragico sulla propria realtà, il grigio della prigione, una condanna alla colpevole innocenza di vivere come un giocattolo per gli adulti ricchi e viziati, ma miracolosamente il carcere si trasforma in un luogo romantico dove poter avvicinare un volto ad una mano separati da un vetro gelido.

L’immagine di Gere tutto firmato Armani che seleziona il suo guardaroba prima di andare ad incassare mille dollari a prestazione non è sbiadita di un niente, è un’icona degli anni ottanta e quando si tira fuori il termine playboy il pensiero scatta immediatamente a lui che scende dalla sua Mercedes decappottabile pronto a colpire con lo stereo che pompa al massimo “Call me” cantata da Debbie Harry, un binomio perfetto che ha sancito il grande successo di questo film, criticabile indubbiamente ma anche unico, epocale e visivamente ineccepibile grazie al grande lavoro di Paul Schrader con la penna e la macchina da presa.

 

Richard Gere

Indimenticabile, è diventato un sex symbol con questo ruolo, ma in quel periodo della sua carriera gli capitarono davvero degli ottimi copioni come "Yanks", "I giorni del cielo" e "Ufficiale e gentiluomo", tutti brillantemente risolti.

Lauren Hutton

Adatta al ruolo e molto elegante ma non la trovo ne una grande attrice ne così bella, non è davvero il mio tipo.

Hector Elizondo

Bravissimo nel ruolo del detective testardo alla Colombo che si veste da cani e vuole a tutti i costi incriminare quel bel tipo che scopa come un riccio e guadagna in una serata il suo stipendio.

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