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American Gigolò

Regia di Paul Schrader vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su American Gigolò

di ed wood
8 stelle

Il film che lanciò Richard Gere nell'Olimpo delle star è anche un eccellente testo filmico ricco di finezze registiche. Schrader non è "solo" l'eccezionale sceneggiatore di Scorsese, ma anche un regista raffinato e "mimetico", per come sovverte a livello subliminale le convenzioni del racconto hollywoodiano. "American Gigolò" è un oggetto anomalo fin dal presupposto: il protagonista è un "prostituto", un aitante e brillante uomo che donne ricche e mature pagano profumatamente in cambio di prestazioni sessuali; i suoi "papponi" sono una donna e un nero. Le gerarchie sociali si ritrovano quindi capovolte, ma l'intelligenza di Schrader consiste nel non dare alcuna enfasi a questo paradosso sociologico; all'autore non interessano discorsi di stampo femminista o anti-razzista: per Schrader, nella liberale, edonista e feroce civiltà californiana, sono tutti uguali di fronte ad una specifica Legge, quella del denaro. Tutto si può comprare, ma se sei un pesce piccolo e se "hai pestato troppi piedi", c'è sempre qualcuno più potente di te disposto ad offrire una cifra più alta per metterti nel sacco. Un'altra delle sovversioni operate da Schrader in questo film sta nell'impostare la narrazione come se fosse un classico noir, con le sue tipiche progressioni, per poi virare verso altro: qui non ci sono femme fatale e non c'è nessuna tentazione criminale scaturita dalla passione per il sesso e per i soldi (come invece nello smaccato noir-revival "Brivido Caldo" di Kasdan). Il protagonista è soddisfatto del suo mestiere, del suo profitto e della sua (assente) vita sentimentale: ad incastrarlo sarà il Sistema stesso, con le sue inestricabili, imprevedibili e perverse macchinazioni. Nel rappresentare l'isolamento dell'individuo, prima complice poi vittima di una società corrotta, di un Male invisivile ed inevitabile, Schrader guarda essenzialmente a due autori, Coppola e Bresson, ripresi anche nelle scelte stilistiche. Dal maestro della New Hollywood, vengono riprese le intuizioni sperimentali della "Conversazione", in particolare lo sfaccettamento barocco della prospettiva, i giochi di specchi, fino al piano-sequenza "spia" (quando Gere si rende conto di essere stato raggirato e mette a soqquadro la casa, viene inquadrato dall'alto, senza stacchi, da quello che parrebbe essere lo sguardo di una cinepresa di sorveglianza, nascosta); la mdp accompagna psicologie, motivazioni e desideri dei personaggi attraverso espedienti tanto classici quanto raffinati quali soggettive, carrelli, zoom, scavallamenti e rotazioni di asse: tali mezzi, uniti ad un montaggio che riprende la stessa scena, lo stesso dialogo, da inquadrature e distanze differenti, definiscono quell'idea di ambiguità, di relatività, di "ridefinizione" che sta alla base del film. Non c'è la paranoia esplicita del capolavoro coppoliano: l'idea di un Potere/Sguardo inafferrabile che osserva ogni nostro movimento e manipola le nostre intenzioni è perfettamente mimetizzata sotto la scorza di un'estetica priva di forzature, trasparente. Bresson invece viene riattualizzato nella rappresentazione di un mondo inesorabilmente corrotto, senza grazia, dove non ci si può liberare dalla colpa, ed esplicitamente citato nel finale ellittico, tutto dissolvenze (in nero), battute laconiche, poche essenziali inquadrature e l'ultima immagine identica a quella di Pickpocket. "American Gigolò" è anche uno splendido ritratto di Los Angeles, non-luogo coacervo di contraddizioni, sintesi di quel "decline of western civilisation" evocato dalla scena hardcore-punk losangelina di inizio anni 80: "Sex and dying in high society" cantava Exene Cervenka e pareva proprio riferirsi all'immaginario di questo film. Contribuiscono al ritratto fascinoso/turpe della città la suggestiva fotografia che esalta parimenti l'inquieta solarità dei giorni come l'elegante degrado "al neon" delle notti, assieme al soundscore dove Moroder rallenta e rielabora al synth (e anch'egli "ridefinisce") il tema di "Call Me" di Blondie.

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