Regia di Gerald Kargl vedi scheda film
“Le prigioni esistono perché uno possa migliorarsi. Ma quel bisogno di torturare un essere umano è la cosa di cui non potrei mai sbarazzarmi.”
Un uomo (Erwin Leder) viene rilasciato dopo dieci anni di prigione, dove ha scontato la condanna per aver ucciso un’anziana signora senza alcun motivo; alle spalle una detenzione quieta ma anche un’infanzia difficile, condita da un maldestro tentativo di accoltellare la madre.
Una volta uscito dal carcere, in lui si fa subito insopprimibile il bisogno di violenza: dapprima adocchia un paio di avvenenti ragazze ad un bar, poi si concentra sulla tassista che lo sta trasportando. Ma le situazioni non si rivelano adeguate e l’uomo si ritrova in fuga a piedi, pazzo, esagitato e senza meta.
Giunto casualmente nei pressi di una villetta isolata, vi si introduce sfondando un vetro, salvo poi trovare all’interno un uomo in sedia a rotelle e afflitto da problemi mentali, giacché sembra riconoscere nell’intruso la figura paterna. Nel giro di poco tempo, rientrano nell’abitazione la sorella e la madre malata dell’inquilino: la situazione perfetta per dare sfogo ad un insaziabile desiderio di uccidere…
“Mi interessava molto la psicologia di questo serial killer e volevo fornire uno sguardo profondo all’interno di questa psiche squilibrata.” [Gerald Kargl]
Gerald Kargl ha diretto un solo lungometraggio di finzione in carriera: lo scioccante e censuratissimo “Angst”, uscito (ove possibile) nel 1983 e passato sotto silenzio per molti anni; la sua carriera è poi proseguita alternando video pubblicitari a documentari educativi, lasciando così alla storia esclusivamente questo film, di cui il regista argentino Gaspar Noé si è dichiarato a più riprese debitore. Si tratta però a tutti gli effetti di un prodotto a quattro mani: se Kargl figura come ideatore, regista e finanziatore del progetto, va sottolineata l’impronta del versatile autore polacco Zbigniew Rybczynski, qui in veste di co-sceneggiatore, direttore della fotografia, addetto alla camera a mano e al montaggio.
Il lavoro di Rybczynski è veramente strabiliante e parte fondamentale della resa espressiva di “Angst”: fra dolly e bodycam assicurate al corpo di Erwin Leder, la telecamera pedina costantemente e vorticosamente il protagonista, volteggiando spesso verso l’alto fino a diversi metri d’altezza. L’effetto ricercato tramite queste inquadrature così inusuali è quello di isolare volto, corpo e movimenti dell’assassino dal contesto circostante, costringendo ancor più lo spettatore ad entrare in contatto unicamente con lui.
L’anonima figura del protagonista di “Angst” ricalca le gesta – per così dire – di un certo Werner Kniesek, un nativo di Salisburgo dal passato difficile che nel 1980 assalì e uccise tre persone nella loro abitazione. A dargli corpo pensa l’encomiabile, allucinato e spigoloso Erwin Leder, attore già apparso in “Das Boot” e qui davvero impressionante. Per contro, gli apporti dei volenterosi ed amatoriali comprimari decisamente non sono all’altezza, ma tant’è, vista la marginalità dei loro ruoli.
Le azioni dell’assassino sono costantemente accompagnate da monologhi interiori che ripercorrono il viaggio della sua psiche disturbata, senza i quali il film risulterebbe pressoché muto. Il prologo introduttivo di circa otto minuti non era presente nella versione originale voluta da Kargl, ma è stato inserito in accordo con i distributori per sopperire alla breve durata del film ed è rimasto presente in alcune riedizioni VHS e DVD negli anni a seguire. L’accompagnamento musicale di questa disturbante visione è costituito da musiche martellanti, ipnotiche ed evocative di Klaus Schulze, noto compositore tedesco di kosmische Musik che in passato fu membro nientemeno che di Tangerine Dream e Ash Ra Tempel.
La visione di “Angst” è a suo modo un’esperienza unica, a patto di essere ben predisposti alla messa in scena glaciale, conturbante e cruenta della barbarie che Kargl e Rybczynski mettono in atto. Pur restando in un ambito praticamente inclassificabile, il film raggiunge nella parte centrale un’efferatezza davvero ardua da sostenere e sarebbe farisaico ritenerla adatta ad un pubblico vasto. Kargl attribuisce piuttosto furtivamente una minima valenza politica e sociale al suo lavoro, menzionando – sempre tramite una voce off – l’infanzia terribile del protagonista ed attribuendogli un’implicita e consapevole pulsione sadica verso il prossimo. Ma il paradigma stilistico di “Angst” è quello di attenersi efficacemente ad una nauseante e sconvolgente estetica della brutalità.
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