Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
Meraviglioso poliziesco rurale sulle indagini per scoprire l'identità di un serial killer sudcoreano anni 80, un noir spietato ma ironico, avvincente e frustrante, in cui quasi ogni sequenza si rivela un piccolo gioiello di di messinscena.
Grazie all'exploit agli Oscar di Parasite, possiamo vedere in sala anche in Italia, con diciassette anni di ritardo, l'opera seconda di Bong Joon Ho, secondo me addirittura superiore alla pellicola che lo ha consacrato alla fama internazionale.
Da fatti reali di cronaca nera di una quindicina d'anni prima, Bong Joon Ho trae un meraviglioso noir sulla logorante ricerca, sempre frustrata, dell'identità di un feroce serial killer, macchiatosi di una impressionante serie di stupri e omicidi di giovani donne avvenuti nel 1986 nella provincia rurale del Gyunggi. A partire dal ritrovamento in una canaletta di scolo al bordo di un capo del cadavere della prima ragazza, seguiamo l'inchiesta condotta dal locale detective Park Doo-man (Kang-ho Song, attore feticcio del regista, nel 2019 padre della famiglia dei “parassiti”), dal suo agente Yong-koo Cho (Roe-ha Kim) dai metodi di interrogatorio violenti e brutali (la Corea del Sud negli anni 80 era ancora un regime), sotto la direzione incerta del sergente e con il limitato supporto dell' unica donna della squadra investigativo (Seo-hie Ko ).
Dato che il team non sembra cavare un ragno dal buco, mentre nuovi omicidi scuotono la sonnacchiosa provincia, dalla capitale inviano l'esperto poliziotto Seo Tae-yoon (Kim Sang-kyung) a sostegno dei dilettanteschi campagnoli. In assenza di testimoni e di un movente apparente, limitati dall'indisponibilità di efficaci mezzi investigativi, una lunga serie di piste più o meno inconcludenti vengono imboccate: quella di un ritardato del villaggio, quella di una leggenda diffusa tra gli studenti di una scuola incentrata sui luridi bagni della stessa, quella di una triste canzone richiesta ad una stazione radio in sinistra coincidenza coi delitti, persino quella degli uomini dal pube glabro. Così l'indagine li porta lungo una pista che poi si rivela un vicolo cieco, ma nemmeno la si può abbandonare completamente, poi magari la stessa ipotesi riemerge in un momento successivo, ma comunque si va a sbattere la faccia contro la carenza di riscontri oggettivi. Fino alla perfetta circolarità del frustrante finale aperto, ambientato nel 2003, di ritorno alla canaletta di scolo in mezzo ai campi, con il faccione e lo sguardo sbigottito e impotente di Kang-ho Song a fissare in macchina da presa.
Se la malvagia crudeltà del killer resta senza volto, e tra i sospetti sfila una sequela poco raccomandabile di sciacalli e pervertiti, i protagonisti poliziotti non sono certo perfetti, piuttosto antieroi dalle dubbie competenze e dalla moralità non cristallina (basti vedere come era condonato l'uso di tortura come metodo di interrogatorio) che appaiono talora alla ricerca di capri espiatori per portare casa un qualsivoglia risultato piuttosto che di una vera giustizia, come all'imbocco della galleria ferroviaria quando l'esasperazione farà perdere a Seo Tae-yoon tutta il suo distacco da freddo professionista.
Bong Joon Ho all'opera seconda, si dimostra già abilissimo narratore, capace di tenere avvinto lo spettatore per condurlo per sentieri inediti, come in Parasite sorprendendolo con svolte inattese ed inchiodandolo con una gestione del ritmo da manuale. Con una regia elegante riesce a creare atmosfere noir particolarissime ed a rendere con precisione angosciante le scene di suspense, costruendo un poliziesco tanto spietato quanto stratificato, tanto disperato quanto ironico e irriverente, essendo l'ironia un elemento irrinunciabile di tutte le sue opere. Merito di una sceneggiatura perfetta che riesce ad amalgamare magistralmente il tortuoso decorso delle indagini, lo sviluppo dei personaggi ed il confronto tra le diverse personalità degli investigatori, nonché i dialoghi del detective con la fidanzata (Jeon Mi-seon ) e lo uno spaccato socio-culturale della Corea del Sud rurale degli anni 80. Merito di una splendida fotografia (di Kim Hyung-ku) che immortala in immagini di rara bellezza il paesaggio bucolico.
Merito del senso di continuo dinamismo che Bong infonde alla sue sequenze, con i movimenti armonici e mai scontati della macchina da presa e quelli dei personaggi (il ricorrente calcio-salto dei poliziotti che paiono volare attraverso lo schermo, la splendida sequenza dell'inseguimento del masturbatore notturno attraverso il villaggio fino alla cava). Merito della sapiente composizione delle inquadrature attraverso la disposizione dei personaggi e della mdp, sfruttando artifizi sottili per indirizzare l'attenzione dello spettatore all'interno di inquadrature di gruppo, senza ricorrere continuamente a tagli di montaggio, con un effetto più fluido ed inclusivo (vedi la scena della zuffa tra Park e Seo all'interno del bar o quella dell'appostamento e scoperta del masturbatore notturno, in cui tutti i personaggi sono mantenuti all'interno dell'inquadratura, sapientemente disposti su diversi livelli). Ad uno sguardo attento, quasi ogni sequenza si rivela un piccolo gioiello di di messinscena.
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