Regia di Arnaud Desplechin vedi scheda film
Dopo aver fatto i conti con la Storia ed aver chiuso nella tomba qualsiasi proposito di impegno politico e sociale, Despleshin si mette dietro le spalle il lavoro precedente tuffandosi nei miasmi dolciastri e vagamente retrò di “Comment je me suis dispute'….”, film che fin dal titolo cerca di disimpegnarsi dalle arzigogolate acrobazie de “La sentinelle”, per abbracciare una forma di narrazione apparentemente umorale e che fa sua una sintassi cinematografica, in cui gli accostamenti tra le singole scene non sono la conseguenza di un ordine precostituito, farmaceutica esecuzione di un piano di bordo studiato al millimetro, ma altresì la manifestazione di un interiorità che vuole liberarsi dei suoi fardelli, e ci riesce utilizzando la bile al posto del compasso, le sinapsi al posto della chimica, arrivando a dimostrare come qualsiasi costruzione, filosofica, scientifica o sentimentale debba fare i conti con le incognite della vita. Così la “malattia” di Paul Dedalus, assistente universitario alle prese con un empasse esistenziale che gli impedisce di indirizzare i propri sforzi verso un comun denominatore ( vita borghese e promozione sociale oppure bohemien e rigurgiti ancestrali), la fidanzata decennale di cui sembra vergognarsi, una girandola di amici ed amanti incapaci di soddisfarne l’adolescenziale curiosità, il lavoro accademico e l’avanzamento di carriera frenato dalla comparsa di un ex collega diventato titolare della cattedra di Epistemologia ed a lui inviso a causa della disputa riportata in cartellone, diventano lo specchio di una generazione in cerca di identità in un “Monde sans pitie”, per dirla con le parole di un altro film che, in qualche modo anticipa e non risolve tematiche e situazioni qui presenti, e che lo stesso Desplechine aveva sceneggiato insieme all’amico Eric Rochant. Il risultato è un opera ondivaga, a tratti debordante, per l’overdose dialettica che accompagna le vicende del protagonista, continuamente sospese tra fenomenologia e psicanalisi ( la storia del film è il resoconto di una guarigione oggettivata dalla seduta/confessione di Paul sul lettino del suo analista), per le numerose divagazioni che si soffermano su episodi poco rilevanti rispetto al centro del problema ma che, nondimeno, aiutano a far montare lo smarrimento generale dei personaggi, per la densità dei rimandi letterari (P.Roth e Joyce in prima linea), cinematografici (su tutti “Mon oncle d’amerique” di Alain Resnais) ed autobiografici, e fin ultimo per la compresenza di uno tono, farsesco ed insieme tragico, che diventerà uno dei tratti più distinguibili del cinema che verrà; caratteristiche di un arte che appare ancora incapace di contenersi ma già mostra una sincerità a tratti disarmante. Attraversato come al solito da uno stuolo di attori che non tarderà ad affermarsi (da Emanuelle Devos a Chiara Mastroianni, da Denis Podalydes a Jeanne Balibar sono per dirne alcuni) il film segna il passaggio di consenge tra Emanuelle Salinger, il feticcio degli esordi e qui relegato ad una parte da comprimario, e Mathieu Almaric, futuro protagonista dei capodopera del regista, e qui alle prese con un ruolo la cui performance rischia di mangiarsi il resto della truppa. In corcorso al Festival di Cannes del 1996, “Comment je me suis dispute (ma vie sexuelle)” vinse il Caesar per la migliore promessa maschile assegnato allo stesso Almaric: un premio quasi profetico alla luce degli odierni risultati.
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