Regia di Arnaud Desplechin vedi scheda film
Nel treno che lo sta riportando a Parigi, Mathias, studente di medicina legale, viene fermato dalla polizia e quindi interrogato da un misterioso individuo; L’episodio sembrerebbe un semplice malinteso fino a quando il giovane scopre nel proprio bagaglio un testa umana perfettamente conservata. Dopo lo stupore iniziale Mathias decide di venire a capo di una vicenda le cui ragioni saranno da ricercarsi nella misteriosa liberazione di alcuni connazionali tenuti prigionieri nell’ex Unione Sovietica.
Per il suo primo lungometraggio Desplechin sceglie di lavorare all’interno del genere utilizzando i codici del “Crime Movie” a favore della propria libertà autoriale. Per far questo costruisce una storia che tiene conto del modello di riferimento, a partire da un incipit capace di giustificare l’ossessione del protagonista e l’indagine che ne consegue, e poi riuscendo ad allestire un “nido di vipere” all’altezza della posta in gioco, con un protagonista la cui ordinarietà sembra fatta apposta per esaltare l’eccezionalità degli eventi i corso. In realtà il meccanismo di genere viene depotenziato da una serie di scelte che privilegiano, da una parte le divagazioni legate alle delusioni di una generazione che a partire dai “Patti di Yalta” (oggetto del contendere nella scena che apre il film) ha dovuto fare i conti con il fallimento dell’utopia comunista e con i compromessi scaturiti da quelle decisioni, e dall’altra si sofferma sulla rappresentazione di un esistenzialismo che si divide tra un decoro borghese difeso a spada tratta (ed è per questo che Mathias deve essere fermato) e le ipocrisie dei rapporti umani (l’amore rimane ancora una volta una chimera). Desplechin getta le basi del suo cinema attraverso un personaggio che vince la sfida con il sistema ma perde quella con se stesso: nell’intento di mantenere l’equilibrio tra cuore e cervello, alternativamente rappresentate dalla professione ufficiale (la medicina legale) e da quella ufficiosa (l’investigatore) finisce per perdere il controllo delle cose diventando di fatto alieno al suo stesso mondo; in questo senso egli diventa il peccato originale ed insieme il prototipo dell’uomo Desplechiano, marchiato per sempre da questa iniziale sconfitta. E come se il regista, approfittando delle sventure del suo eroe, prendesse fin da subito le distanze da una resistenza politica che soprattutto in Francia è ancora uno stile di vita (basterebbe ricordare le annose questioni legate all’estradizione di molti terroristi italiani) ed invece nella filmografia del nostro diventerà qualcosa di cui si può fare a meno. Seminale è anche l’idea di famiglia come luogo di morte, Topos già presente nel precedente “La vie des morts”, mediometraggio del 1991 in cui il suicidio di una persona cara mette in discussione le vite di amici e parenti e che si conferma anche qui nella relazione tra la morte del padre di Mathias e l’inizio di una disgregazione familiare che, come sempre succede nel cinema di Despleschin, va oltre i legami di sangue e si allarga ad amici e conoscenti. Le famiglia diventa così una “Comune” in cui si combatte la battaglia finale, quella in cui si decide la vita o la morte dei suoi componenti.
Una densità di temi e significati che il regista traduce con uno stile compatto e movimenti di macchina ridotti al minimo: il regista preferisce lavorare all’interno dell’inquadratura, che restituisce l’alienazione del protagonista facendo convivere gli squilibri della storia con la composizione di una scena in cui le figure occupano sistematicamente il centro dello spazio e dove la prevalenza del piano americano la dice lunga sulle sinergie tra ambienti e personaggi. Certo, complessivamente il film risente delle urgenze tipiche delle opere prime ed anche l’impianto di genere dimostra evidenti limiti di coerenza: troppe cose rimangono non spiegate e la sensazione di un evidente difficoltà nelle gestione di alcuni passaggi appare evidentemente. Mancanze che pesano sul giudizio dello spettatore occasionale ma che aumentano il senso di innafferabilità di un opera si imperfetta ma che non può lasciare indifferenti.
In concorso al Festival di Cannes del 1992 il film ha vinto il premio Caesar del 1993 per il miglior attore maschile (Emanuelle Salinger)
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