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La canzone più triste del mondo

Regia di Guy Maddin vedi scheda film

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La recensione su La canzone più triste del mondo

di alan smithee
8 stelle

La fame e la povertà nel posto più desolato e freddo del mondo, scalfite da uno spettacolo in cui si celebra ed esalta la tristezza (la saudade?) come punto di partenza per cercare di ripartire e rimettere in moto, nel bene come nel male, la società e i suoi commerci, forse l'economia intera di un paese depresso non solo climaticamente.

Dopo aver visto, e non proprio apprezzato, l’’ultimo folle viaggio nel tempo e nello spazio cinematografico de The forbidden Room da parte di un regista coraggioso e originalissimo come Guy Maddin, l’intenzione di recuperare quello che ad oggi è il suo film più famoso e noto, risultava per me impellente. Risulterà più arduo reperire le altre opere di questo rivoluzionario, folle e indipendentissimo regista, ma questo è un problema che affronterò in un'altra occasione.

Che poi, a dirla tutta, The forbidden room è un film interessante, originale, folle ed unico, difficile se non insostenibile a seguirsi in tutto il suo incastro cervellotico, ma mirabile nello stile retrò e citazionista, omaggio di una tecnica di cinema e di un tempo che ormai è solo un lontano ricordo.

Certo ora, avendo visto questa opera precedente, datata 2003, suggestiva ed evocativa di tempi ormai lontanissimi, narrativamente complessa, ma non debordante come la sua ultima citata poco sopra, molte più cose si comprendono più chiaramente: almeno relativamente al pallino stilistico del regista, la sua fissazione/omaggio agli anni degli albori del cinema, quelli in cui la forza narrativa si spingeva ben oltre le possibilità tecniche decisamente limitate legate al periodo, con l’ausilio dell’ingegno, di una spiccata dose di immaginazione ed una abilità artigianale che si trasformava in un’arte degna delle sue più classiche forme di espressione.

Ci troviamo a Winnipeg, in Canada (a quanto pare città natale del regista), sotto una bufera di neve che imperversa lungo tutta la scomposta vicenda. Nel 1933, la grande depressione ha svuotato i portafogli e le risorse della popolazione, afflitta dal freddo e dalla fame e i pochi imprenditori ancora in esercizio tentano di trovare una soluzione che possa incentivare i consumi, ridotti al minimo.

Tra costoro, riconosciamo l’eccentrica Lady Helen Port-Huntley (Isabella Rossellini), avvenente donna che scopriamo mutilata di entrambi gli arti a causa di un incidente d’auto e dell’intervento maldestro del padre di costei, medico alcolizzato che le ha amputato la gamba sbagliata, e poi quella lesionata dallo scontro.

Alla donna, triste per la sua condizione di inferma, ma non certo arrendevole, viene l’idea di organizzare una rassegna, un vero e proprio festival musicale dedicato alla musica folkloristica di natura triste, cercando di creare una competizione tra i vari paesi e le rispettive culture, per eleggere

Vincitrice appunto La canzone più triste del mondo. Premio in palio 25 mila dollari, e la prospettiva di radunare un pubblico in massa che possa scaldarsi e bere fiumi di birra di sua produzione.

A coadiuvare la donna nella organizzazione interviene il trafficone mellifluo Cherster Kent, impresario in disarmo noto a Broadway ed ex amante della donna, tra l’altro alla guida della macchina che procurò l’incidente in cui la donna perse le gambe con il contributo fallimentare del padre ubriaco, dottor Fyodor Kent.

Tra i personaggi incrociamo pure il fratello di lady Kent, Roderick, di ritorno da una periodo felice ma dal tragico epilogo in Serbia, dove costituì famiglia e la perse poco dopo: personaggio fobico e complessato, ipocondriaco e allergico al tatto altrui; La bella lady Helen (una Maria De Medeiros incantevole con quel suo visino ovale che si confonde sempre più in un personaggio dei fumetti da pupa del boss), anche lei ingaggiata nella gara canora e soprattutto una serie di numeri musicali folkloristici che mettono in competizione i vari stati, sottoposti ad eliminatorie come lungo una rassegna sanremese grottesca ed ironica ricostruita nello stile vintage e retrò del cinema dei primi del ‘900.

E dietro tutto ciò l’intrigo per orchestrare le eliminazioni, comprare e corrompere i partecipanti più abili e magari poveri e bisognosi, che si accontentano di una ricompensa per non esibirsi. Un complotto che assume una carattere politico se si pensa alla predominanza degli stati più ricchi su quelli più poveri, e l’occasione per rispolverare pezzi e motivi delle tradizioni locali più lontane nel tempo.

Guy Maddin realizza un film caotico quasi quanto il suo ultimo e già citato The Forbidden Room, ma anche altamente e ben più affascinante e meno dispersivo di quest’ultimo: con scene madri e presenze cardine indimenticabili. Isabella Rossellini, amputata e kitch come la Boxing Helena della famiglia Lynch che lei, proprio lei Isabella, conosce bene, con questo personaggio di Lady Kent, che ad un certo punto si riavvale dell’uso di improbabili gambe di vetro levigato luccicante ricolme di birra spumeggiante, ci fornisce un altro personaggio indimenticabile di una carriera forse discontinua, ma decisamente colma di parti iconiche ed occasioni irripetibili: dopo il ruolo torbido, mediaticamente scandaloso e contraddittorio della dark singer Dorothy Vallens di Velluto Blu, dopo il cameo stordente e noir di Perdita Durango in Cuore selvaggio (entrambi di Lynch, come a voler chiudere un cerchio aperto poco sopra, seppur solo a livello di influsso parentale), dopo la satanica tentatrice di Lisle Von Rhoman de La morte ti fa bella, con questo personaggio di Lady Kent la Rossellini completa un poker di personaggi femminili forti, estrosi e inquieti, insomma da antologia: un individuo che, come ricordato anche qui in questo sito, risulta degno di figurare tra i mostri di Todd Browning del suo epocale, terrificante ed indimenticato Freaks.

Un film celebrativo e cinefilo in cui si respirano le arie più seducenti ed indimenticabili del cinema che ha fatto la storia dei capostipiti basilari della settima arte, omaggiati anche qui da una fotografia pastosa e da riprese scientemente traballanti, tagliuzzate ed antichizzate ad arte: da Chaplin, anche per le bufere di neve, al citato Browning per i personaggi bizzarri al limite della caricatura, ma in fondo reali e uguali a loro stessi.  

Un divertissement cinefilo coraggioso che procede dritto per la sua strada, incurante o comunque poco preoccupato di risultare bizzarro ed ardito, se non ostico ai più, ed anzi fiero di trovarsi un posto nella nicchia più intransigente ed estrema del mondo cinefilo.

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