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Tales from the Gimli Hospital

Regia di Guy Maddin vedi scheda film

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La recensione su Tales from the Gimli Hospital

di OGM
8 stelle

Il primo lungometraggio del canadese Guy Maddin è un incubo ad occhi socchiusi. È un manifesto dell’orrore appena intravisto, ironicamente sottinteso, che attinge cautamente alla visionarietà onirica, ma è fondamentalmente intriso della maleodorante banalità del vivere. L’ospedale di Gimli (nome di una località del Manitoba, la regione d’origine dell’autore) è il punto di partenza per una favola, che una donna racconta a due bambini, raccolti intorno al capezzale della madre morente. La sua storia parla ancora di malattia, di morte che stronca l’amore, di sogni infranti a causa di un’epidemia che provoca cicatrici sulle pelle, tosse e cecità, però non annulla la speranza.  Nella vicenda del povero Einar, il giovane pescatore solitario che si infetta tagliandosi accidentalmente un dito mentre ripara una rete, la  felicità – o, per meglio dire, la sua proiezione fantastica – sopravvive anche in mezzo al dolore. Squallido teatro della sofferenza è una stalla, invasa di paglia e piume, in cui gli scomodi  e rudimentali giacigli sono duri tavolacci di legno: in quella clinica improvvisata, in cui il riscaldamento è assicurato dal fiato degli animali, i pazienti sono accuditi da tre premurose crocerossine, che curano il corpo e intanto sollevano l’animo facendo volare la fantasia. Il brutto si tinge di rosa, in un’estetica nella quale l’elemento grottesco è tutt’uno col volto umano. Il mondo, anche nei suoi aspetti più miseri,  risulta così cosparso di commoventi frivolezze, che all’occasione nascondono piccole e grandi cattiverie, ma sono sempre cariche di autentica passione per la vita. Alla luce di questa straordinaria volontà di continuare a coltivare l’illusione, nulla appare troppo stravagante, nemmeno l’arte di intagliare pesci nel sughero o un paio di forbici decorate eletto a simbolo di un tradimento. Gli oggetti parlano il linguaggio figurato delle fiabe per bambini, in cui le cose sono le preziosi custodi delle idee e dei sentimenti: sono facili da immaginare e da ricordare, e segnano quindi il filo conduttore di un discorso in cui tutto il resto cambia, a cominciare dal destino che fa incrociare le strade, per poi separarle. Poco dopo il suo ricovero, Einar stringe amicizia con Gunnar, il suo vicino di letto, con il quale comincia a scambiare confidenze, fino a scoprire un drammatico legame che  lo unisce a quell’uomo, che fino ad allora gli era completamente sconosciuto. Quella che presiede alle coincidenze è una sinistra magia, che qui pervade tutta l’asfittica realtà di una vicinanza forzata, che nega l’intimità e costringe a scoperchiare il ribollente abisso dei segreti del cuore. Ne fuoriesce una tiepida colata che si traduce in blandi, ma accurati, accenti teatrali, sfiorando in parte l’espressività gestuale del melodramma classico, in parte le suggestioni dell’espressionismo tedesco, con singole esplicite citazioni tratte dal Friedrich Murnau di Nosferatu  e dal Fritz Lang di M, il mostro di Düsseldorf.  L’intero film è un omaggio al cinema degli anni venti, nello stile cinematografico e nell’ambientazione storica, che, pur essendo confinata in uno sperduto villaggio del Canada, richiama, nei costumi e nel trucco, la moda dell’epoca. Qualcuno ha paragonato questo film al David Lynch degli esordi; ma se anche le affinità estetiche non mancano, ben diverso è lo spirito che anima questo bianco e nero che è sì afflitto dai drammi esistenziali, però è del tutto privo di quell’avveniristico e catastrofico gusto del nonsenso che sta alla base di opere come Eraserhead. Lo sguardo di Guy Maddin è costruttivo, rivolto al passato, e mirante a recuperare e conservare le tracce di quel codice visivo universale, semplice ed immaginifico, che è nato insieme alla settima arte, ed ha avuto il suo momento di gloria proprio nei primi decenni della sua vita. In Tales from the Gimli Hospital, quel sottofondo di feroce disincanto - che Maddin ha tratto da L’âge d’or di Luis Buñuel, il suo film ispiratore – ci riporta idealmente a un tempo, ormai lontano, in cui le scene proiettate sul grande schermo erano soltanto un modo, inventato, avventuroso e spesso crudele, di parlare dei fatti della vita. Raccontare per far capire con parole nuove: il romanzo ottocentesco docet.

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