Regia di Lucian Pintilie vedi scheda film
Una giornalista (Ana-loana Macaria) e un vecchio professore (Radu Beligan) sono in viaggio per recarsi a Giurgiu, da Frant Tandara, un ex aguzzino durante il periodo buio della dittatura di Nicolau Ceausescu. Il vecchio torturatore si è dato all’apicultura, vive insieme alla moglie (Coca Bloss), una donna un po’ strana che porta degli occhiali grotteschi e sembra muoversi solo a comando. L’intervista-confessione che Tandara deve rilasciare alla giovane giornalista ha difficoltà a decollare, interrotti spesso dalle cose strambe che avvengono nel luogo adibito ad abitazione dall’ex torturatore, una vecchia baracca ereditata dal padre che li vi allevava le pecore. Ma soprattutto, sono interrotti dalle telefonate del figlio di Tandara (Serban Pavlu), che parla con il padre solo per augurargli ogni male possibile.
Lungo tutta la storia del Cinema, è spesso capitato che gli impulsi più vitali per l’evoluzione del linguaggio cinematografico siano legati al doppio filo con la necessità dei determinati registi di raccontare la condizioni di salute del proprio paese. E' accaduto in Italia, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, dove la nascita e lo sviluppo di quella corrente cinematografica andata sotto il nome di Neorealismo fece del nostro paese l’avanguardia di un modo originale di approcciare con la materia Cinema. Un prodigio artistico che assommava evoluzione formale della tecnica e capacità di saper cogliere descrittivamente il divenire storico, una corrente di pensiero che da sempre rappresenta un modello stilistico di riferimento per chiunque voglia ammantare di “realismo” il proprio modo di fare cinema. Accade ancora oggi, ovunque si senta l’urgenza di fare della macchina da presa un occhio vigile sulla vita che scorre, uno scandaglio dei sentimenti per smascherare gli inganni che la tengono prigioniera. Un percorso carsico per svelare l’universale che c’è dietro il particolare. Accade in diversi paesi (o aree geografiche), ognuno con un proprio approccio stilistico ed una propria specificità di linguaggio. Uno di questi paesi è sicuramente la Romania, la cui cinematografia, a mio avviso, è una delle più vitali dell’ultimo ventennio, caratterizzata (detto molto sinteticamente) dal rendere facce di una stessa medaglia, le riflessioni (socio-politiche) sulle contraddizioni prodotte da un paese ancora irrisolto e la descrizione puntuale di emblematici resoconti esistenziali. Nell’ambito di questa “rinascita” del cinema rumeno, un film certamente riuscito è stato “Il pomeriggio di un torturatore” di Lucian Pintilie, un’opera che denuncia esplicitamente la dittatura di Nicolau Ceausescu e che fa viaggiare sullo stesso binario, il buio di ieri con le precarietà di oggi, usando elementi e situazioni paradossali per accrescere di senso lo stato di sostanziale indeterminatezza in cui versa ancora il paese. A differenza di diversi altri film rumeni di questi ultimi anni, tesi a far scorgere tra le pieghe di spaccati di vita quotidiana il carattere profondo di un paese contraddittorio, in bilico tra una rivoluzione mancata ed una restaurazione attuata sotto altre forme (penso in particolare a film come “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” e “Un padre,una figlia” di Cristian Mungiu, “Il caso Kerenes” di Calin Peter Netzer, “A est di Bucarest” di Corneliu Porumboiu, “Francesca” di Bobby Paunescu, “La morte del signor Lazarescu” di Cristi Puiu), “Il pomeriggio di un torturatore” va dritto al problema, presentandoci la faccia atroce della dittatura attraverso il resoconto esistenziale di un professionista della tortura. Le pratiche terroriste con cui si era soliti reprimere ogni forma di dissenso, ci vengono presentate in tutte le loro brutali modalità, con parole che cercano un pentimento. Ma ciononostante, il film non arriva mai ad assumere un tono totalmente grave, alleggerito nella sua sostanza tragica da una struttura narrativa che mostra di preferire l’arma corrosiva del paradosso ad un taglio “documentaristico” intriso di dramma. Detto altrimenti, il film oscilla tra le confessioni del torturatore, ossessionato dai fantasmi di un passato che lo ha visto servo cosciente del regime, ed un ambiente circostante che interrompe continuamente la linearità dell’intervista, sfumando la serietà che dovrebbe contraddistinguerla in un qualcosa che rimane irrimediabilmente irrisolto. Il cinema fa la sua parte, insomma, con una messinscena essenziale fatta di pochi ma incisivi movimenti di macchina, che nel mentre si prodigano nel coprire di ridicolo il sincero pentimento di un mostro di regime, dall’altro lato portano a riflettere sulla difficoltà di giungere ad un identità nazionale attraverso il riconoscimento di una storia condivisa. Fare i conti con il passato rimane un fatto individuale, non certo collettivo, più il frutto di una redenzione tardiva di un uomo che vuole venire a capo dei suoi fantasmi, che la risultante di uno slancio sentimentale sprigionatosi dalle viscere del paese. Tutto questo finisce per legare la banalità del male, impersonata da un aguzzino della dittatura passata, con la superficiale evanescenza dimostrata dalle condizioni di salute del presente. Lucian Pintilie usa diversi espedienti narrativi per rendere tangibile questo legame : una baracca malmessa adibita a casa, Tandara che non riesce a trovare il giusto ritmo per portare a compimento come vorrebbe le sue confessioni, un telefono che squilla continuamente, una donna strana presentata come una specie di serva, che l’unica volta che parla è per dire irata “di non torturare il marito con tutte queste domande”. Tutto contribuisce a rendere precaria la semplicità di una conversazione, a togliere sicurezza alla pacata accettazione delle proprie colpe. Soprattutto il figlio di Tandara, una presenza (assenza) carica di tensione e di rancori. Detesta il padre per il suo passato da torturatore, ma non sopporta neanche il fatto che stia cercando una redenzione in vita, “tradendo così, lo spirito del suo paese”. Lo maltratta, sbraita, inveisce contro di lui, dimostrando di detestare ciò che è stato il padre ma anche di non vivere col presente un rapporto pacificato. Il figlio di Tandara, così com’è stato caratterizzato da Lucian Pintilie, rappresenta appieno l’orgoglio malato di un intero paese, corrotto dai lasciti cancrenosi di un passato troppo recente per non far sentire ancora i suoi effetti. Un passato che si preferisce camuffare sotto altre forme piuttosto che sottoporre ad una sofferta rielaborazione. Solo un bellissimo campo di girasoli, che “sembra uscito direttamente da un quadro di Van Gogh”, interrompe la sensazione di caducità perenne che aleggia lungo tutto il film. Ottimo cinema.
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