Regia di Banjong Pisanthanakun, Parkpoom Wongpoom vedi scheda film
“Shutter” (da oggi ribattezzabile “Sciatter”, all’italiana, per sottolinearne la trasandatezza di contenuti) è una storia di fantasmi proveniente dalla Thailandia. Approcciare il genere horror con un’ennesima vicenda che racconta di spettri non è di per se’ facile: lo spettatore ormai smaliziato da un’infinita lista di visioni, più o meno fantastiche, sull’argomento ha consolidato le abilità previsionali, per cui è necessario sorprenderlo, spiazzarlo con qualcosa di nuovo. Il paese di produzione e i registi sembravano promettere bene: da quelle parti c’è una cultura di genere giusta che va dalla capacità di mettere in scena la vendetta così come il terrore, l’eleganza dell’immagine unita alle visioni mostruose.
Eppure… le speranze di assistere a qualcosa di originale e spaventoso vengono disattese quasi subito. Si parte da sequenze di vita comune intervallate da altre fatte di ombre misteriose che lasciano impronte sulle foto. Si prosegue con sogni premonitori (brutta bestia quando ci sarebbe la necessità di non anticipare troppo gli elementi della storia), con analisi mediche approssimative (che neanche il mio dottore personale riuscirebbe a osteggiare), riprese di flash al buio, e attività di ricerca sugli spiriti e il loro perseguitare i vivi. L’attitudine sembrerebbe puntare su di una storia leggermente “ostica”: prendere le distanze dal gore e dall’azione per avere miglior fortuna con le sottigliezze psicologiche (quello che avremmo desiderato!).
Invece si finisce per accasarsi su temi ed estetiche prive di passione: tende mosse dal vento, ombre a profusione, rumori di passi senza costrutto, e una quantità esorbitante di foto che in confronto quelle che ti mostrano gli amici appena sposati sono una passeggiata. È vero che spesso il cinema che (mi) piace è fatto di illusioni, apparenze, brevi accenni che alimentano spunti interpretativi altissimi e profondi. Ma qui manca la conseguenza. Il cogitare è in realtà un mezzo per perdere del tempo, dissipare quel piccolo patrimonio che stava lì, a portata di mano, per realizzare un film riconoscibile fra tanti.
Lo “Sciatter” maschio (di nome Tun, e interpretato da Ananda Everingham, conosciutissimo in Thailandia) è un fotografo che non si cura: soffre di equivoci dolori al collo (e qui, senza spoilerare troppo, si potrebbe facilmente ironizzare affermando che gli autori non erano in grado di sopportare questo peso artistico sulle spalle) e si procura anche una distorsione all’avambraccio. Praticamente uno sfigato adolescente che, come si muove, combina guai. La caratteristica maggiore che lo contraddistingue, e che vorrebbe essere una lettura filosofica impassibile, è il fatto di non sapersi guardare dentro, di osservarsi bene allo specchio, scialacquando il suo rincorrere fantasmi nel pensare solamente alle sorti altrui.
Non può essere biasimato per questo. La sbrindellata ragazza chiamata Natre, portata sullo schermo da Achita Sikamana, non ha un aspetto amichevole: avvolta da capelli lunghi stopposi e con le doppie punte, sfiora anch’essa l’imbranataggine (almeno da viva). Da morta non sa nemmeno lei come far provare paura agli altri, vinta dall’indecisione. Compaio nelle foto? Mi faccio vedere di fronte o di profilo? Indosso la mia divisa scolastica o qualcosa di casual? Faccio capolino ai piedi del letto? Agisco a distanza o alito sul collo? Sembrano problemi da ridere. E lo sono.
Formalmente resta inesploso anche il congegno che avrebbe dovuto garantire il maggior interesse: la vecchia storia d’amore non finita, la quale provoca una serie di suicidi contagiosi. Banjong Pisanthanakun e Parkpoom Wongpoom sono registi dediti al raffazzonamento e, girando intorno a un probabile stupro di gruppo (confermo che il numero quattro porta proprio sfortuna, ragazzi), ce la menano su chissà quale mistero si nasconda nel passato dei protagonisti. Vincolati nel cercar di creare effetti emotivi devastanti, ci si dimentica degli interpreti, naufraghi sull’isola deserta dell’eterno riposo.
Il punto più alto di comicità involontaria si ha quando Tun, rimasto senza carta igienica in un bagno pubblico, sfonda la porta del cesso attiguo, completando i neologismi da affibbiare al film: TRANSciatto. Vedere per credere.
La storia potrebbe finire con l’incidente automobilistico con la quale inizia, ed essere risucchiata in un loop infinito di situazioni tutte uguali, immutabili, eterne. Ecco, forse vederlo per una vita intera potrebbe dare un’idea, anche minima, della malinconia che gli autori avrebbero voluto comunicare. La seccatura sarebbe il sicuro incremento dei suicidi.
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