Regia di Paul Schrader vedi scheda film
Non importa essere dei pornomani per comprendere meglio come la generazione dei nati negli anni ’90 e ’00 abbia vissuto l’approccio alle “luci rosse” in maniera 2.0. Adesso tutto è a portata di clic, non scandalizza più nulla e la normalità di cui tutti si riempiono la bocca è diventata una chimera da affiancare al solo bigottismo e non alla moralità (anti-moralista).
Premessa d’obbligo per affrontare un film che affonda le proprie radici agli albori del cinema a luci rosse mainstream, in un periodo in cui le sale VM18 aumentavano esponenzialmente e una larga fetta di popolazione – sicuramente provinciale – scopriva e vedeva cose che prima si immaginava solamente (o magari faceva in modo privato senza sbandierarlo in giro).
Paul Schrader scrive e dirige un grandioso film, figlio del 1979, figlio della sua educazione calvinista (George C. Scott può essere considerato il suo alter-ego?), figlio della lezione intrapresa con la collaborazione con Scorsese in “Taxi Driver”.
“Hardcore” possiede un meccanismo perfetto: porta avanti l’indagine per riportare a casa la figlia finita nel mondo dei film porno e allo stesso tempo ci illustra come andavano le cose in California – Schrader ci mostra i quartieri a luci rosse di Los Angeles, San Diego e San Francisco – a livello di produzione di pellicole spinte, riguardo la circolazione illegale di materiale scottante e quanto concerne la gestione dei bordelli al neon.
Nella seconda parte del film, quanto George C. Scott è affiancato dalla bella prostituta Niki sembra di rivivere “Taxi Driver” e i dialoghi sulla sessualità e sulla religione possono essere considerati come un marchio di fabbrica della poetica di Schrader.
Film grandioso.
P.S.
Avrei fatto fare l’attrice porno a Karen Kruen (la cugina) anziché alla – seppur bravissima e in parte – Ilah Davis.
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