Regia di Paul Schrader vedi scheda film
L'opera seconda di Paul Schrader è una discesa negli abissi del degrado sociale ed umano di una America allo sbando, post-Contestazione e post-Vietnam. Sarebbe facile ricondurla all’affresco metropolitano di "Taxi Driver", capolavoro scorsesiano scritto dalla mano di Schrader: si passa dalle nevrosi di New York allo squallore di Los Angeles, ma lo scenario non cambia. In realtà, le cose sono più complesse, in quanto lo Schrader regista non è solo una sorta di Scorsese senza adrenalina, ma un peculiare autore di un cinema mimetico, che si traveste con generi ed immaginari familiari per indagare nelle perversioni più indicibili dell'homo americanus nell'era post-moderna. Compare infatti già qui, come nel più recente e sottostimato “Autofocus”, una forma embrionale di riflessione su quella malattia dello sguardo, attratto/inorridito dalla riproduzione (specie se anonima, domestica) di immagini di sesso/violenza, resa possibile dallo sviluppo incontrollato della tecnologia audio-visiva. Il referente implicito di "Hardcore" pare essere "Sentieri Selvaggi" di John Ford, che non è solamente uno dei più grandi western di tutti i tempi, ma un testo profondo, ambiguo e sfaccettato da cui partire per un’analisi sulla coscienza collettiva e sulle ossessioni private che caratterizzano la civiltà statunitense. La vicenda del borghese di provincia, brav’uomo casa e chiesa, che parte alla ricerca della figlioletta “rapita” dalle forze del Male (gli “indiani” metropolitani del cinema porno), col rischio concreto di ritrovarla irriconoscibile, non può che richiamare alla straziante vicenda di Ethan Edwards nel capolavoro fordiano. E come in quel film, anche in “Hardcore” la forza tragica emerge dal fatto che viene elusa ogni impostazione manicheista, ogni tentazione declamatoria, ogni rischio di sociologia spicciola o di bieco moralismo. Il protagonista, grazie anche alla misura di George Scott, affronta la ricerca con nervi saldi, con pazienza, calandosi gradualmente in una realtà per lui aberrante: senza rinnegare i suoi princìpi, comprende che l’unico modo per ritrovare la figlia è quello di simulare, di vestire i panni del nemico, di combatterlo con le sue stesse armi, di sporcarsi le mani. E la regia di Schrader, nella sua composta e serafica strategia più descrittiva che narrativa, incarna filmicamente l’atteggiamento del protagonista. Senza alzare la voce, ma indicando chiaramente le radici della corruzione (la logica del profitto: il dominio del denaro sul corpo, declinato nell’imprescindibile binomio sesso/violenza), Schrader condanna tanto il mondo ottuso e bacchettone del protagonista quanto quello squallido e opportunista dell’industria porno. C’è un dialogo che esemplifica alla perfezione questo scontro di culture, finito sostanzialmente in pareggio: quando la bionda che aiuta il protagonista nella ricerca afferma che il sesso non è importante né per lui (poiché ha solamente fini procreativi) né per lei (poiché è solo un mestiere). La condanna è duplice, tanto del sesso represso, quanto di quello mercificato: due facce della stessa medaglia. La pietas con cui Schrader ritrae i suoi personaggi, individui dalle buone intenzioni ma risucchiati da sistemi e logiche aberranti (il fondamentalismo religioso, l’industria del porno), da una parte permette al regista di focalizzare l’attenzione sull’ambiente, sul contesto in cui queste figure tragiche si ritrovano ad agire, dall’altra isola i momenti di umanità di cui questi sono capaci: come non provare tenerezza alla visione del pater familias che fa divertire i nipotini con una buffa pantomima dietro al tacchino arrostito? Eppure, Schrader non fa sconti al brav’uomo, nemmeno nell’apparente happy end, quando rivela tutto il suo patetico velleitarismo nel voler aiutare una porno-attrice a fuggire da quel sordido ambiente. E’ un film che propone molte buone trovate di sceneggiatura (il caustico detective interpretato da Peter “Frankenstein” Boyle) e di regia (il piano-sequenza a 360 gradi nella stanza del motel), ma sconta alcuni difetti che rendono preferibile il successivo “American Gigolò”, altra odissea losangelina negli anfratti di un mondo dove sesso, denaro e potere sono le coordinate per rintracciare un Male sfuggente. Infatti, la catena di frustranti incontri nei bassifondi è forse un po’ tirata per le lunghe, alcune sequenze mancano di brillantezza e funzionalità allo sviluppo narrativo; inoltre l’incontro con la figlia risulta un po’ forzato nelle motivazioni psicologiche e melodrammatico nelle reazioni dei personaggi. Poco male: averne oggi a Hollywood di film come questo!
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