Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
De quelque chose.
I film di Godard sfuggono, per loro natura, a qualunque impresa ermeneutica. D’altronde, come afferma Edgar, il protagonista del film, «le cose son lì, perché interpretarle?». È, infatti, sotto il segno dell’imperscutabilità che si può collocare questo Éloge de l’amour, tra i film più segreti ma anche [per chi scrive] più affascinanti del maestro del cinema francese. Una cripticità che nasce dal rifiuto della storia (une histoire seule), a favore di una rete narrativa e semantica complessa (toutes le histoires). Godard ci illude fin dal titolo: Èloge de l’amour non è un film sull’amore. O, per essere più precisi, non è un film solo sull’amore. È piuttosto, come il precedente Histoire(s) du cinéma, un film sulla memoria. Non più, però, sulla memoria del cinema, ma sulla memoria della Storia.
Edgar, un giovane regista, vuole dirigere un film sull’amore in quattro “movimenti” – parla sovente di “sonata”: l’incontro, la passione fisica, la separazione e la riconciliazione. E per girarlo vuole tre coppie di innamorati, che rappresentino le tre fasi della vita: la gioventù, la mezza età, e la vecchiaia. Ma Èloge de l’amour procede per digressioni, parentesi e momenti vuoti, sfaldanto velocemente questo esile intreccio di partenza. La destrutturazione compiuta da Godard ci porta, in questo modo, alla radice delle immagini, ai significati delle parole, sovvertendo ogni tipo di mediazione. Godard, destrutturando, vuole abbattere i significati artefatti e distorti che, secondo lui, sono il male della contemporaneità. Non è un caso che i suoi attacchi insistano spesso sull’America (anzi, specificandolo continuamente, il «Nord d’America»), e su certo cinema americano (Spielberg). La distorsione della memoria storica (Schindler’s List) attraverso una “narrazione conforme” è il male contro cui Godard si scaglia.
Ma il film, ovviamente, non si limita a questo. Éloge de l’amour è anche un film di grande ricerca stilistica. Alla prima ora completamente in bianco e nero, si contrappone una mezz’ora finale dai colori saturi, sovraesposti e distorti. Il passaggio cromatico del film segna un ritorno al passato (viene alla mente il 2001 kubrickiano, altro film dove il passaggio spaziale e temporale convive con una distorsione cromatica). Dai travagliati giorni in cui Edgar cerca di girare il suo film – il presente -, torniamo indietro di due anni, quando il regista compì un viaggio di studio sulle origini del cattolicesimo – che poi si tramutò in una ricerca storica sull’olocausto. Più volte, a intervallare le immagini, compare la parola «archive», per sottolineare l’importanza (e lo scopo) testimoniale che deve avere, secondo Godard, il cinema. Un cinema per ricordare, e per non dimenticare.
De l’amour.
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