Regia di François Ozon vedi scheda film
Romain è un giovane fotografo omosessuale che un giorno sviene improvvisamente per terra. Da lì a poco scoprirà di avere un tumore che si è già diffuso per tutto il corpo. Non volendo sottoporsi a un ordinario ciclo di cure, ritenendolo inutile, Romain deve aspettarsi solo pochi mesi di vita.
Il percorso che conduce alla morte è un percorso lastricato di solitudine. Appena Romain scopre la terribile verità, rompe il suo fidanzamento, cerca di allontanare da sé la sorella, si rintana - come un animale ferito - nelle profondità di se stesso. Perché il fatto di dover morire lo rende diverso e allo stesso tempo estraneo a tutti coloro che lo circondano: riesce infatti a confessare la propria situazione solo alla nonna perché lei, come lui, si trova alla fine dei suoi giorni. Ma la vita va avanti, deve andare avanti, nel suo perenne ciclo di nascita e morte, e Ozon lo mostra attraverso continue immagini simboliche, che non risultano invasive ma quasi sempre ben amalgamate al discorso: Romain osserva da lontano i figli della sorella, osserva una madre che allatta suo figlio in treno, e alla fine - sulla spiaggia in cui finalmente arriverà la fine - i bambini che giocano a palla e che rappresentano l’inizio, il bagliore luminoso dell’esistenza che continuerà senza lui. Riuscirà persino (e questa digressione è la parte meno credibile e riuscita della vicenda) a mettere incinta una donna il cui marito è sterile. Ad ogni modo è proprio nel passare simbolicamente il testimone ad altri, che Romain può trovare l’unica consolazione possibile. Questo di Ozon è un film non perfetto, ma lucido e intenso, che riesce a trattare un tema delicato e complesso senza scadere in facili banalizzazioni; commuovente non perché cerchi la lacrima, ma proprio perché sa farsi pura e disincantata rappresentazione della realtà.
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