Regia di Dwight H. Little vedi scheda film
Primo capitolo della linea narrativa spuria, quella che prevede il personaggio di Laurie Strode morto, e che prosegue con il quinto e sesto capitolo cronologico della saga. La presenza del dottor Loomis interpretato sempre da Donald Pleasence è garanzia di continuità narrativa, ma la linea pura della serie, che paradossalmente non può più contare sulla presenza di Pleasence come attore, è quella considerata ufficiale. Altro paradosso: sono gli episodi 4 e 5 della linea spuria ad essere tra i migliori sequel della saga.
Innanzitutto, la rivalità Michael/Loomis, pur non avendo la profondità e la complessità di quella tra Michael e sua sorella, gode comunque di un’epica tale che in più occasioni risulta più efficace dello scontro e della turba intrafamiliari. Il personaggio di Loomis, ossessionato dal “mostro” che insegue e che cerca di abbattere per sempre, ricorda quelle figure di antichi cavalieri dediti ad un’unica missione nella loro vita. Fosse anche una bazzecola per altri, per loro è invece irrinunciabile. La figura ricorda infatti sia i cavalieri delle gesta medievali sia la loro parodia donchisciottesca, dato il grado di impossibilità e riuscita della missione. Non c’è comunque nulla di tragicomico in Loomis e in Halloween, perché tutto ha i caratteri espressionisti di un incubo distorto e il tono macabro di una discesa agli inferi.
Anche il quarto capitolo gioca molto sulla visibilità del Male e sulla distorsione con cui rappresentarlo. Già l’incipit alla gas station prelude al confronto epico tra Loomis e Michael, sempre più senziente, con un’esplosione di fuoco e fiamme, movimenti e caos, che danno le misure dello scontro. Michael è difatti una figurazione di un male antico, “puro”, che non ha né una storia né coordinate culturali. È semplicemente presente. È la sua presenza fantasmatica, ubiqua e minimale a caratterizzare il registro fantastico con cui anche il quarto capitolo gioca in termini visivi e di ripresa, soprattutto nella sezione centrale della vicenda, quando il film diretto da Dwight H. Little si trasforma in una specie di assault movie, filone tra i più amati in America dopo il falso mito identitario di Alamo. Così, sulla scia di Rio Bravo (Howard Hawks, 1959), Night of the Living Dead (George Romero, 1968) e appunto Assault on Precinct 13 (John Carpenter, 1976), variazioni classiche e moderne del filone, anche Halloween concentra la propria modulazione narrativa sull’assedio di Michael alla “casa” dello sceriffo, dove si nasconde anche la nipotina Jamie. Attacco all’istituzione familiare su più fronti.
La presenza della piccola Danielle Harris è un punto di forza indiscutibile. Armata di grande carattere e presenza scenica, la piccola figlia di Laurie Strode, vestita da pagliaccio in occasione della notte di Halloween, come lo zio nel 1963, attiva dispositivi narrativi ed empatici classici e prevedibili, poi disattesi dal personaggio di Loomis che pur volendo salvare la bambina rivede in lei la linea di sangue di Michael. L’explicit è infatti lì a confermarlo, immortalato nello sguardo terrorizzato ed impotente del grande attore britannico.
Il risultato è un horror molto buono, dove ad una pacata dose di crudeltà e uno scarso utilizzo del “corpo” adolescente furoreggia un’idea visiva pregna di ombre, ritagli di luce e di un nero fotografato come pece; una visibilità del male che per commentare l’incubo utilizza esistenti classici dell’horror come la notte, la nebbia, i controluce, il nero gravido di oscurità sul modello dei due episodi precedenti. Un classico racconto dell’orrore trasposto in immagini.
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