Regia di John Curran vedi scheda film
Ad avere l'idea di un terzo film tratto da "Il velo dipinto" di Somerset Maugham (dopo la versione del 1934 con Greta Garbo e quella intitolata "Il settimo peccato" del 1957) fu la produttrice Sara Colleton, pensando ad una sceneggiatura dall'imprinting femminista. Il lavoro di scrittura partì spedito ma attraversò fin da subito diverse fasi di incertezza, fino a quando non entrò in scena Edward Norton. L'attore era stato folgorato dal libro di partenza, arrivando a dichiarare all’epoca. "Quando ho letto il libro, sono rimasto davvero colpito perché ho visto nella storia tutti i miei fallimenti". Egli suggerì immediatamente alla produzione di affidare a Naomi Watts in ruolo di Kitty, e fu poi lei a caldeggiare come regista John Curran, con il quale aveva già fatto "I giochi dei grandi". Ed ovviamente l'allora marito Liev Schreiber nei panni di Towsend. La gestazione (come la lavorazione a dirla tutta) fu lunga e complicata: Ron Nyswaner ed Edward Norton impiegarono un anno e mezzo a completare il copione. Norton ci mise tutto l'impegno per sviluppare il personaggio di Walter Fane, prendendosi molte licenze poetiche ma ragionando sulla resa della performance attoriale. John Curran, invece, propose di ambientare la vicenda nella Cina di metà anni 20’, raccontando quindi il Movimento del 30 maggio e l'enorme ondata di xenofobia che all’epoca aveva caratterizzato il paese. Per non tradire i fatti, il regista si fece aiutare da autorevoli studiosi, d'accordo con Edward Norton che, all'università di Yale, aveva studiato storia cinese. I set furono montanti a Shanghai, dunque, e da lì la troupe si spostò in una zona nella parte sud, quasi al confine con il Vietnam, mentre il villaggio colpito dal colera fu ricostruito nell'antica città di Huangyao. Alle difficoltà logistiche, linguistiche, culturali, atmosferiche, si aggiunge la scarsa collaborazione del governo cinese, assai critico sulle pieghe politiche della sceneggiatura delineando quella complicata fase storica oltre che preoccupato dell'immagine complessiva della nazione (arrivando ad intimare a Currant e Norton a diminuire di molto il numero delle vittime del colera).
A film ultimato e uscito in sala, Norton chiese esplicitamente un parere agli eredi delll'autore del romanzo originario. Ricevette in risposta una lettera da uno dei nipoti dello scrittore: pur ammettendo le ampie libertà interpretative prese, egli confermava l'apprezzamento per la trasposizione, ritenendola superiore alle due precedenti. Una bella soddisfazione per l'attore americano che al testo, dichiarò, si era appassionato letterariamente in maniera romantica, e che da subito aveva immaginato emulo de "La mia Africa" una pellicola a lui cara perchè emblema di topos antico e modernissimo come quello del binomio amore-perdita.
All'origine, il romanzo di Somerset Maugham: uno dei talenti letterari più in voga nella prima metà del Novecento, ampliamente saccheggiato dalla cinematografia statunitense. Uscito a puntate sulla rivista Cosmopolitan fra il 1924 e il 1925 esso riporta una curiosa nota in prefazione: la fonte insospettabile nel dorato Trecento letterario italiano. Lo scrittore, infatti si applicò con passione allo studio della Divina Commedia, rimanendo affascinato dai pochi versi dedicati ad un episodio celeberrimo: "Ricorditi di me, che son la Pia; Siena mi fé disfecemi Maremma: salsi colui che inanellata pria disposando m'avea con la sua gemma." (Purg. V, 133-136). Notò l'autore: "Ersilia [la giovane che lo aiutò con la comprensione del testo in italiano] mi disse che Pia era una gentildonna senese; il marito, sospettandola di adulterio e non osando metterla a morte per timore dei familiari, la portò in un suo castello in Maremma nella speranza che i mefitici vapori del luogo provvedessero alla bisogna; ma poiché ella tardava a morire si spazientì e la fece gettare dalla finestra. [...] Per qualche motivo la storia colpì la mia immaginazione. La rigirai nella mente, e per molti anni le dedicai di tanto in tanto due o tre giorni di riflessione. [...] Naturalmente la immaginavo come una storia moderna, ma non riuscivo a figurarmi nel mondo d'oggi un ambiente dove simili fatti potessero accadere. Lo trovai soltanto quando feci un lungo viaggio in Cina."
Al centro del racconto, dunque, una storia primariamente di vendetta che ben si confà alle corde dell'autore: vagamente misogino, crudele ed aspro, con la sua prosa a tratti ridondante ed a tratti semplicistica, almeno nella struttura (sarà uno dei crucci che gli inimicarono la critica, impegnata in quegli anni alla decodifica dei modernisti e decostruzionisti Woolf Joyce e in parte Mann). Difficile definire "Il velo dipinto" un romanzo d'amore. Come trasformarlo in una sceneggiatura? Non facile far digerire ad un pubblico contemporaneo, già alle prese con ritmi lenti e una struttura al limite del melodrammatico ed in quanto tale fuori tempo massimo da circa quarant'anni, il pessimismo, il cinismo e la disaffezione che pervadono il testo originale. Ecco dunque che le quattro mani di Ron Nyswaner ed Edward Norton accomodano pesantemente tirando fuorin un film che, sotto sotto, cambia proprio il senso stesso dell'opera. Eppure, con ciò, sa ritagliarsi un suo spazio alternativo e condivisibile del tutto originale che stupisce e convince lo spettatore.
Kitty Garstin, una ragazza graziosa ma vuota e superficiale appartenente alla medio-alta borghese londinese, di fronte all’imminente fidanzamento della sorella minore, decide d’impulso, per non rimanere zitella, di sposarsi con Walter Fane, un giovane batteriologo che la adora e che la porta con sé ad Hong Kong (nel film è Shanghai). Una volta arrivata in Cina, Kitty si rende conto di aver sbagliato a sposare Fane, perché non lo ama, e una volta conosciuto Charles Townsend, il viceconsole inglese, si innamora di lui e i due instaurano una relazione. Quando il marito scopre il tradimento, la pone di fronte a un ultimatum: o lo accompagna a Mei-tan-fu per far fronte ad una rischiosa epidemia di colera o lui chiederà il divorzio, sempre a patto che anche Townsend divorzi sua volta e la sposi immediatamente. Di fronte al rifiuto dell’amante di lasciare la moglie – comportamento del quale Walter era certo – Kitty è costretta a partire col marito. Ed è proprio in un paesino sperduto della Cina e distrutto dal colera che entrambi espieranno le proprie colpe, impareranno a conoscersi ed a comprendere nel profondo quanto sul serio importante. L’evoluzione della protagonista e la sua piena presa di coscienza personale a cospetto della sostanza profonda e complessa del marito nel film coincidono con un incontro travolgente, per troppo tempo rimandato, tra i due. Sarà comunque troppo tardi.
Se la regia risulta a tratti troppo convenzionale, con riferimenti ai melò della grande Hollywood ma senza il coraggio della sconvenienza tragica, "Il velo dipinto" risulta essere un bell'esempio di scrittura dove tutto, malgrado tutto, regge e sembra avere il suo giusto ruolo nell'economia dell'universo: i rapporti interpersonali, l'evoluzione emotiva, il paesaggio, la politica, persino la religione e la scienza e il di quest'ultime conflitto e/a alleanza
Nel romanzo la figura centrale e quasi unica è la frivola Kitty: al contrario, cinematograficamente è l'incontro-scontro ad armi pari fra un uomo ed una donna profondamente diversi a reggere: e Norton fornisce una prova attoriale splendida. Che invito ad apprezzare in lingua originale (perché Norton va proprio visto all'opera in inglese, come avevo già punzualizzato per il sopravvalutato "Birdman") anche se invero i dialoghi sono ridotti al minimo e lo stesso Norton è bravissimo nella sottrazione. Il suo dottor Fane è un uomo silenzioso ma acuto, intelligente e colto, che dietro riservatezza e pudore conserva una straordinaria gamma di sentimenti, dal rancore alla tenerezza: “Su di te non mi facevi illusioni” disse. “Sapevo che eri sciocca e frivola e una testa vuota. Ma ti amavo. Sapevo che le tue aspirazioni e i tuoi ideali erano banali e volgari. Ma ti amavo. Sapevo che eri una banale di second’ordine. Ma ti amavo. Mi vien da ridere se penso con quanto impegno cercavo di divertirmi alle cose che ti divertivano, quanto mi premeva nasconderti che non ero ignorante, volgare, pettegolo e stupido. Sapevo come avevi paura dell’intelligenza e cercavo in tutti i modi di farti credere che ero sciocco come gli altri uomini di tua conoscenza. Sapevo che mi avevi sposato solo per convenienza. Non mi importava, ti amavo tanto. Molta gente, a quel che vedo, se è innamorata senza essere ricambiata pensa di subire un torto. Si arrabbia, prova rancore. Io non ero così. Non ho mai preteso che tu mi amassi, non vedevo motivo perché tu dovessi amarmi, non mi ritenevo molto amabile. Ero grato che mi fosse concesso di amarti e andavo in estati se ogni tanto mi pareva che tu fossi contenta di me o se notavo nei tuoi occhi un barlume di benevolo affetto. Cercavo di non annoiarti col mio amore, sapevo di non potermelo permettere e stavo sempre attento al tuo primo segno di insofferenza. Quello che i mariti di solito pretendono come un diritto io ero disposto a riceverlo come un favore”. Accettabile Naomi Watts, forse non ancora del tutto matura per un ruolo così sfaccettato ed a mio avviso un po' mancante proprio sui toni drammatici: "Nella sua voce c’era stanchezza. Kitty cominciava a irritarsi con lui. Perché non capiva quello ce a un tratto le era divenuto chiaro: che accanto all’ombra della morte che si stendeva su di loro, accanto alla bellezza che lei quel giorno aveva intravista, le loro erano futili questioni? Cosa davvero importava se una stupida donna aveva commesso adulterio, e perché suo marito, al cospetto del sublime, se ne dava pensiero? Era strano che Walter, con tutta la sua intelligenza, avesse un così scarso senso delle proporzioni. Sì, aveva vestito una bambola di abiti sfarzosi e l’aveva messa su un altare per adornarla, e poi aveva scoperto che la bambola era piena di segatura; per questo, non riusciva a perdonare sé stesso né lei. La sua anima era lacerata. Aveva vissuto in una finzione, e quando la verità l’aveva mandata in pezzi gli era parso che andasse in pezzi la realtà stessa. Era proprio così, non la perdonava perché non poteva perdonare sè stesso." Senza infamia né lode Liev Schreiber, meglio Toby Jones che riesce in poche inquadrature a delineare un personaggio a tutto tondo.
Come la regia, anche il montaggio segue stilmeni consolidati ed un po' desueti. Volutamente leggero, quasi invisibile.
Musica mi pare premiata con il Golden Globe: ma a me Desplat non convince sempre. Ed in questo caso non ha convinto per un eccesso di vacuità, come se la sua colonna sonora incidesse poco - nei pieni come nei vuoti.
Fotografia, scenografie, locations, costumi, tutto giusto, tutto soffuso, cinese, umidiccio.
Lascio a chi avrà voglia di recuperare il romanzo (se già non lo avesse fatto) scoprire quale la differenza sostanziale fra il testo ed il film (a tal riguardo mi è tornato alla mente "Colazione da Tiffany"): nessun errore. Solo, una interpretazione forse consolatoria, ma di sicuro moderna. Che stà in bell'equilibrio con con gli stilemi volutamente anacronistici di questo lavoro cinematografico
"Si svegliò con un sussulto.
Il bungalow si trovava a mezza costa di una ripida collina, e dalla finestra vide il fiume angusto sotto di sé e là di fronte la città. L’alba era appena spuntata e dal fiume saliva una nebbiolina bianca che velava le giunche ormeggiate l’una vicina all’altra, come piselli nel guscio. Ve n’erano centinaia, ed erano silenziose, misteriose in quella luce spettrale, e avevi la sensazione ce gli equipaggi fossero sotto un incantesimo, perché non sembrava il sonno, ma qualcosa di strano e terribile a tenerli così muti e sospesi.
Il mattino avanzò e la bruma toccata dal sole brillò del niveo biancore di un astro morente. Sul fiume la luce lasciava discernere debolmente le file di giunche assiepate e la fitta foresta dell’alberatura, ma là di fronte c’era ancora una muraglia luminosa che l’occhio non riusciva a penetrare. A un tratto da quella nube candida emerse, poderoso, un alto bastione. Sembrava che non fosse il sole rivelatore a renderlo visibile, bensì che sorgesse dal nulla al tocco di una bacchetta magica. Torreggiava sul fiume, roccaforte di una gente barbara e crudele. Ma il mago lavorava rapidamente, e ora un frammento di muro colorato coronò il bastione; in un momento grandeggiante dalla nebbia e toccato qua e là da un raggio dorato di sole, apparve uno sciame di tetti verdi e gialli. Parevano enormi, e non si distingueva un disegno; l’ordine, se un ordine c’era, sfuggiva; capriccioso, bizzarro, ma di una magnificenza inimmaginabile. Quell’edificio non era una fortezza né un tempio, era il palazzo incantato di un imperatore degli dèi, dove nessun uomo poteva metter piede. Era troppo aereo, fantastico e immateriale per essere opera di mani umane; era il tessuto di un sogno.
La faccia di Kitty si bagnò di lacrime; guardava rapita, le mani strette al petto, la bocca semiaperta perché le mancava il respiro. Non si era mai sentita il cuore così leggero, e le sembrava che il corpo fosse una guaina giacente ai suoi piedi e lei puro spirito. Vedeva la Bellezza. La accolse come il credente accoglie nella bocca l’ostia che è Dio"
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