Regia di Christophe Honoré vedi scheda film
Voilà. ça marche meme trop bien, cette petite saloperie, receptacle de nevroses et d'histoires débiles, insupportablement parisien; son inextinguible soif pour la crapule humaine m'énerve démésurement. La cosa più triste è che dentro questo film c'è Parigi per davvero, eppure non c'è, assenza/presenza. La seconda si espone a partire dalla sequela di emblemi ridicolmente messi in mostra a cominciare dal Garrel qui se tappe toutes les moffes du quartier, prototipo parigino, scapigliato, generalmente parte integrante del fashion-victime-system, politicamente noncurante o modailolo anche in quello; poi l'appartamento di Guy Marchand che sembra venuto fuori dagli anni settanta, i vecchi dischi del Duris (uomo insopportabile e non bravo), l'albero di natale con le palline di vetro sbiadite e le luci intermittenti che non funzionano più; poi c'è il rimosso di un suicidio, la paura dell'invevitable, la paura della vita, vita-cappio che si stringe intorno al collo del parigino, il quale senza la sua città non vive più: "On ne peut pas s'inventer paysans comme ça!", e nessuno dà loro credito quando migrano il fine settimana a Deauville o in Borgogna a respirare un po' d'aria buona, perché anelano al ritorno anche se raro è che l'ammettano; poi il 23 dicembre aux Galeries, un'istituzione, l'emblama vero e proprio della pariginità. La prima (l'assenza): è che questa schiera di oggetti-feticcio non nascondono niente dietro a sé se non una devozione incontrollata, un assuefamento, una dipendenza...Parigi è una droga? Ma con altri occhi, occhi di chi non ha mai vissuto a contatto con certi simboli, con questi occhi mistificanti, allora si può davvero vedere Parigi , si può avere il sentore della sua presenza...Purtroppo Honoré fa parte della prima categoria, come la folla di falsi eroi tardo-romantici, e donne coco chanel di cui si è contornato.
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