Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film
Registrato quasi subliminalmente su Fuori Orario molti anni fa in attesa del tanto agognato Le armonie di Werckmeister, I giorni dell'eclisse si è rivelato film altrettanto sconvolgente. Innanzitutto, l'accostamento tra due maestri dell'Est come Tarr e Sokurov, è un'operazione non priva di fascino e ricca di spunti. Entrambi i film, infatti, sono l'occasione per interrogarsi sulla «fine» in senso metafisico: quasi un invito ad addentrarsi negli abissi del post-umano. Due registi uniti dalla rinuncia all'uso "classico" del colore - optando chi per il bianco e nero (Tarr), chi per il seppia (Sokurov) -, e del tempo filmico - ovvero, attraverso tempi lunghi e lunghissimi -, e, soprattutto, con uno sguardo sempre rivolto al loro comune maestro, che li ispira da sempre nella loro indagine filosofica e cinematografica: Andrej Tarkovskij.
Il film di Sokurov, fin dal titolo, si inscrive in un contesto dichiaratamente apocalittico. I giorni dell'eclisse è la storia di un dottore che si trasferisce in una paesino abbandonato dell'Asia Centrale, per intraprendere degli studi. Ma il suo lavoro viene continuamente interrotto da bizzarri e fantasmatici incontri.
La sottile trama (sempre pronta a disgregarsi) è semplicemente un escamotage, da parte del regista, per parlarci della «fine» - dell'umanità, delle cose, dell'universo - in un mondo inaridito, soffocante, popolato da fantasmi. Un luogo dove, forse, potrebbero ancora accadere dei miracoli - un bambino che misteriosamente cade dal cielo -, ma in cui, a dominare, resta lo scetticismo.
Il film, tratto da un romanzo di fantascienza russa, è certamente un'esperienza ardua e criptica. Ma la capacità di Sokurov di mostrarci le «macerie» di un'umanità allo sfascio - quella post-sovietica, ma il film tende all'universale - è qualcosa di unico, e terribilmente prezioso.
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Devo dire che ho trovato affascinante e problematico il rapporto che Sokurov instaura con il "campo", quello spazio dell'inquadratura che affonda nel visibile per/nell'/data l'impossibilità (semantica) di mostrarci l'invisibile. I viraggi seppia, ocra, marroncini che deflagrano nel colore o più raramente nel bianco e nero, la musica che sembra commentare altro dal film, l'anamorfismo e i grandangoli... tutto ci riporta allo sguardo: uno sguardo che sta tutto nel fuoricampo, nell'osservatore esterno, nell'impossibile onniscienza del filmmaker. Forse l'alieno del film - che nel formidabile incipit cala dal cielo e sbatte contro dei sassi quasi nel sottosuolo, in quelle "macerie" letterali che citi nella tua opinione - è proprio Sokurov. Folgorante la tua riflessione su Tarr/Sokurov/Tarkovskij. Saluti!
È, la tua, una lettura molto affascinante. Il viraggio molto evidente in questo film crea una sorta di distanza nell'atto stesso dell'enunciazione, determinando uno sguardo altro, «alieno», come bene suggerisci. Sokurov è effettivamente tra i cineasti che, in tempi abbastanza recenti, si è interrogato, non solo sulla forma, ma proprio sul "formato" cinematografico (che implica e riconsidera i ruoli di regista e spettatore). Mi sembra che l'immagine sokuroviana sia tra le meno definibili, sempre così mutante. Imponente, certo, ma al contempo già corrosa. Grazie per l'intervento, un saluto!
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