Regia di Paul Leni vedi scheda film
Secondo Sadoul, Das Wachsfigurenkabinett può essere considerato “il canto del cigno dell’espressionismo”. Sicuramente è il film che chiude il cosiddetto “ciclo dei tiranni immaginari” (Kracauer).
Il soggetto fu scritto da Henrik Galeen, lo stesso che in Nosferatu di Murnau aveva introdotto il tema della identificazione del despota (in questo caso il vampiro) con la pestilenza., quindi quanto di meglio si poteva disporre in quel periodo per “sensibilità” e inventiva. Lo imparentano al Caligari, oltre una certa assonanza nel titolo, anche una ambientazione molto simile, che è di nuovo quella della fiera e dei sui baracconi “attrattivi” (nel caso della pellicola di Paul Leni, un carrozzone che espone maschere di cera).
La storia (o meglio, la cornice, che poi però, come vedremo, si intersecherà con gli episodi narrati all’interno) racconta di un giovane poeta senza il becco di un quattrino in cerca di un lavoro (interpretato dal futuro regista William Dieterle, qui ancora citato con il suo esatto nome di battesimo, Wilhelm). Immaginerà così di aver risolto parte dei sui guai quando verrà a conoscenza del fatto che il padrone di quel baraccone di “figure” quasi spettrali che rappresenta uno dei richiami di maggior successo della fiera in corso, è alla ricerca di qualcuno che sia in grado di scrivere dei veri e propri “canovacci” che narrino le “gesta” proprio di quelle “celeberrime” maschere di cera che espone. Aiutato dalla figlia del proprietario del piccolo museo delle cere, il poeta otterrà l’incarico agognato. Introdotto nella stanza dove sono esposte le riproduzioni per poter portare a compimento la sua opera di scrittura, sarà immediatamente colpito e rimarrà fortemente affascinato - quasi ammaliato – (così come accade per lo spettatore in sala), proprio dalla potenza diabolica che quelle statue emanano, “magicamente” evocata dalla luce che lentamente, fra ombre e riflessi, ne rivela i tratti sottraendoli progressivamente all’oscurità circostante che li celava. E da questa visione angosciante, mentre il poeta tenterà di portar a termine il suo lavoro di scrittura, teneramente osservato in disparte dalla ragazzina che lo segue con la dolce trepidazione del suo sguardo innamorato, prendono il “vita” i tre episodi che compongono il corpo dell’opera, diseguali come intensità e durata, ma nei quali vengono recuperati molti dei temi canonici dell’espressionismo.
Il primo è dedicato alla figura del califfo Harun-al –Rashid (a cui da volto e corpo l’immenso Emil Jannings) ed ha il tono un po’ irridente delle farse orientali, oltre che lo scopo evidente di “ridicolizzare” criticamente proprio “quel” mondo dei tiranni di cui parla. E’ fra tutti e tre quello che suscita maggiori incertezze e riserve, forse a causa della carica ironica e un po’ irriverente di cui è pervaso, che non lo fa apparire in totale sintonia col genere, e a suscitare per questo qualche “disarticolante” perplessità all’interno di un quadro già di per sé non propriamente “omogeneo,” almeno sotto il profilo della scrittura (ma solo però per quanto concerne la fluidità del racconto, poiché sotto il profilo dell’unità stilistica, non c’è invece niente da eccepire, poiché le disuguaglianze narrative sono ampiamente riscattate da una ancor oggi “ammaliante” atmosfera rarefatta e favolistica che, con le sue ambientazioni oniriche fortemente chiaroscurate, ci introduce in una dimensione decisamente irreale che è il suo pregio più rilevante (non è un caso che Leni avesse avuto un precedente “curriculum” operativo di significante pregnanza proprio come scenografo - oltre che come collaboratore del grande Reinhardt - perché è nelle ambientazioni antirealistiche dove il ruolo anche “figurativo” di quei manichini meccanici è fondamentale, che riesce a dare il meglio di sé).
Tornando al film, questo primo episodio è a suo modo una analisi che intende mettere alla berlina quei “detentori del potere” (ce ne sono anche ai giorni nostri, eccome se ce ne sono!!) che lo esercitano a scopi ludici e personali, come per esempio quello di pretendere di poter circuire a piacimento e acquisire come proprietà riservata, magari anche solo per una notte, qualsiasi donnina graziosa e piacente che gira loro intorno. E’ tutto sommato un preludio poco incisivo a quelle che saranno poi le variazioni più seriose sullo stesso tema, ma che già inserisce un elemento “importante”, proprio per quell’intreccio fra reale e fantasia a cui accennavo prima. Qui c’è infatti un califfo vanesio che vuole portarsi a letto la moglie civetta di un pasticcere geloso (non a caso incarnato dallo stesso Dieterle, così come la donna insidiata è interpretata da Olga Belajeff che già vestiva i panni della trepidante innamorata figlia del padrone della baracca) che per ripicca, approfitterà dell’occasione per entrare nel castello e rubare l’anello magico del califfo, così da volgere in suo favore l’esito degli eventi.
Il secondo episodio anima invece la maschera di Ivan il Terribile (un altro attore “memorabile” di quei tempi come Conrad Veidt ne veste i panni con straordinaria diabolicità espressiva) che ci viene presentato come l’incarnazione quasi demoniaca di crudeltà inaudite e di brame insaziabili (il “male” assoluto” insomma). L’episodio ha una durata molto più lunga di quello precedente, così da diventarne veramente il “corpo” pulsante della pellicola. Ivan il Terribile, dunque, un essere abietto e malvagio che, con una crudeltà che non è solo fisica, ma anche mentale, si diverte a misurare con una clessidra l’agonia delle persone che tortura (una trovata davvero degna del Marchese De Sade), così che ciascuna di esse possa conoscere il momento esatto della propria morte, calcolato in modo che il decesso coincida esattamente con la discesa dell’ultimo granello di sabbia all’interno di quella posata accanto al proprio corpo agonizzante. E nell’episodio narrato, vediamo Ivan interrompere “scientemente” una festa nuziale in pieno svolgimento con l’obiettivo appunto di ammazzare l’uomo con i suoi consueti metodi atroci e di poter disporre a suo piacimento della di lui sposa - dopo averla fatta assistere al supplizio del marito (non a caso ancora la Belajeff e Dieterle) - come amante di una notte. Alla fine però sarà a sua volta costretto a pagare il fio di tante nefandezze anche lui, grazie alle macchinazioni di un cospiratore assetato di vendetta, che riuscirà a fargli credere di essere stato a sua volta avvelenato (e sarà preso ancor di più dal panico quando scoprirà una clessidra con sopra scritto il suo nome che ne confermerebbe l’esito infausto). Inorridito e tremante di paura, “tenterà di fermare il tempo” continuando freneticamente a capovolgere la clessidra per evitare che l’ultimo granello cada giù, con una ossessione progressiva che lo porterà a perdersi nella pazzia, seguendo così il destino di altri nomi topici che hanno reso celebre l’espressionismo, come appunto Caligari o Mabuse.
Il terzo episodio (di nuovo molto più conciso come durata) vede invece Werner Krauss vestire i panni di Jack lo Squartatore (ed è appunto la sua figura, non nuova all’immaginario di quei tempi, quella che si anima e prende vita). E’ in questa sintesi finale che i personaggi del racconto della cornice si mescolano – integrandosi direttamente senza più “mediazioni” come nei due precedenti esempi - con le gesta della figura di cera. Il poeta infatti stanco per il troppo scrivere si addormenterà riverso sul tavolo, e prenderà allora forma dentro le visioni del suo sogno la storia criminale dell’eroe negativo immortalato dal manichino, un assassino sanguinario alla ricerca di nuove vittime da squartare che lo inseguirà selvaggiamente e senza tregua, mentre lui tenterà disperatamente di salvarsi insieme alla sua terrorizzata innamorata. Tutto qui, non c’è molto altro nell’episodio, ma l’inseguimento e la fuga sono di tale portata empatica da restituire perfettamente l’angoscia destabilizzante della precarietà che si estrinseca proprio nell’atmosfera da incubo che sempre la vita assume sotto qualsiasi tirannia o pericolo incombente e che diventa tangibilmente disturbante, tanto da farne sicuramente la punta di diamante del risultato complessivo dell’opera.
Come ancora osserva il Kracauer, i tre episodi si basano su personaggi che direttamente, o per similitudine evidente, avevano già attraversato il cinema dell’epoca: Jack lo squartatore era presente anche in Caligari (e lo ritroveremo poi successivamente ancora in Lulù); la storia di Harun ha forti assonanze con Sumurun di Lubitsch, mentre Ivan può rappresentare benissimo il senso e l’anima di ciascuno dei tiranni che hanno infestato le varie epoche storiche (al cinema avrebbe avuto nuovo vigore anche figurativo e uno spessore “tragico” e narrativo di gran lunga superiore, ma solo successivamente, grazie a Ejzenstejn). Ne rappresentano quindi la “summa” e l’emblematico epilogo.
Il simbolismo del Gabinetto delle figure di cera è certamente l’elemento predominante, che va oltre la semplice “illustrazione” esplicativa che le scene suggeriscono, poiché grazie proprio alla forza delle immagini, riesce a penetrare la natura stessa del problema, mettendo a nudo l’anima estrema della tirannia e del suo potere devastante. L’insistenza con cui in quegli anni la fantasia pittorica riusciva a girare intorno ad argomenti similari mostrandone derive e pericoli (è una caratteristica appunto che attraversa tutto il filone espressionista) sta proprio ad indicare che il problema dell’assolutismo autoritario del potere era un pensiero e una preoccupazione di primaria rilevanza nell’immaginario collettivo e quindi si potrebbe definire come una “aderenza” assoluta e “necessaria” la rappresentazione figurativa delle forme dell’arte con le inquietudini realisticamente tangibili della vita di ogni giorno. Le sequenze sono spesso perfettamente “compiute” e tali da rendere l’idea del disagio e della minaccia come meglio non sarebbe possibile. Nell’episodio dedicato a Ivan il Terribile per esempio, c’è un brano che può ben evidenziare il fascino magico emanato dal potere (suscitando riflessioni adeguate): la cinepresa inquadra una porta che su entrambi i battenti reca un’immagine a grandezza naturale di un santo con in mezzo, troneggiante come se fosse a sua volta la rappresentazione di un’icona vivente fra quelle reliquie dipinte, il tronfio Ivan che passa, carico di tutte le insegne distintive che il suo grado gli riserva (ed è una “identificazione” celebrativa che fa davvero male e disturba). Meglio ancora (sempre nello stesso episodio), la sequenza nella quale si vede la sposa che il tiranno vuole fare sua, costretta a guardare al di là delle sbarre di una finestra, ciò che accade nella camera delle torture proprio mentre il marito è sottoposto a terribili sofferenze. L’inquadratura quasi tragica del suo volto sofferente sconvolto dall’orrore di quanto è forzata ad osservare, è seguita da un primo piano della mano curata e inanellata di Ivan che a sua volta stringe le sbarre di ferro quasi con sadico piacere. Nell’economia generale del film comunque, l’episodio più importante – come già accennato - è proprio quello brevissimo (credo che non superi gli 8 minuti di durata) di Jack lo Squartatore, sequenza fulmineamente ansiogena, che può annoverarsi a buon diritto fra i migliori risultati dell’arte cinematografica espressionista e non del periodo. L’azione è spostata in esterno (cioè fuori dal baraccone, ma il tutto è comunque girato sempre in studio), in quella atmosfera caotica e confusionaria, piena di gente - da fiera paesana insomma - che avevamo già conosciuto ed apprezzato in apertura. Ma la metamorfosi quasi sinistra dell’ambiente è totale: dove c’era piacere e gioia, confusione e ressa, adesso c‘è soltanto una rincorsa a perdifiato e l’angosciosa solitudine desertificata di un mondo “altro” che sembra all’improvviso diventato una terra di nessuno spettrale e inquietante, dentro al quale è facile smarrirsi e perdersi. Per creare questa misteriosa fantasmagoria che definisce concretizza in modo ancor più potente e univoco il concetto del caos mentale (molto di più e meglio degli analoghi scenari di Caligari), vennero usati non solo teloni intrisi di matrici espressioniste molto accentuate e insistite, ma anche ingegnosissimi effetti di luce e ogni altro possibile “trucchetto cinematografico” disponibile in quegli anni (era il 1924). Il risultato è esasperatamente coinvolgente, poiché i disparati frammenti architettonici (tutti esasperati nelle proporzioni e nei rapporti che differiscono notevolmente da quelli reali) si coagulano perfettamente fra luci ed ombre che li rendono fortemente infidi, formando disordinate composizioni all’interno delle quali si aprono squarci inattesi come porte o pertugi che indicano nuove (im)possibili vie di fuga. Per la sua specificità, l’episodio ricorda molto da vicino il Caligari ma lo supera di molte spanne per sintesi e intensità drammatica (anche se non nel risultato e nell’importanza complessiva dell’opera): nella loro fuga, il poeta e la ragazza passano correndo accanto a giostre che ruotano di continuo, inseguiti dal “mostro” che appare improvviso e minaccioso, persino facendo capolino da una gigantesca ruota Ferris anch’essa in continuo movimento rotatorio, tampinandoli vorticosamente sempre più da vicino dentro impervie “strade” degne dei più terrificanti incubi notturni, ma di quelli che non consentono nemmeno di tirare il respiro, da quanto sono paurosi.
Un caposaldo da analizzare e studiare con particolare attenzione dunque, che se non raggiunge i vertici assoluti dei capolavori cinematografici della corrente, rimane un significativo esempio di evoluzione e ricerca espressiva all’interno del mezzo utilizzato, soprattutto in virtù della straordinaria forza di quel "segmento finale" che è davvero straordinario.
Come giustamente ricorda il Mereghetti, il film è circolato (ed è di conseguenza conosciuto) anche come Tre amori fantastici (era stato in effetti previsto anche un quarto episodio, poi però “cassato” per motivi di budget, e forse è stato davvero meglio così, almeno dal mio punto di vista poiché poco ben poco poteva essere aggiunto a un discorso già di per sé perfettamente concluso.)
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