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Forza bruta

Regia di Jules Dassin vedi scheda film

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La recensione su Forza bruta

di fixer
8 stelle

FORZA BRUTA è un classico del genere carcerario che gli americani amano chiamare “Prison Movie”. E’ un genere che si è andato smarcandosi dal “Crime Movie o “Gangster Movie”, soprattutto grazie a una serie di film di grande successo che richiamarono l’attenzione del grande pubblico. Carlos Clarens,(ma non solo lui) nel suo ottimo CRIME MOVIES, ritiene che il vero capostipite di questo “genere” sia CARCERE (1930) (THE BIG HOUSE) di George Hill (da non confondere con George Roy Hill!). In effetti, si tratta del primo vero film serio sulle prigioni americane. Inoltre, come capostipite, stabilisce dei veri e propri stereotipi che segneranno questo tipo di film per gli anni a venire. Ci riferiamo, ad esempio, al direttore del carcere che brilla per mancanza di determinazione, della rivolta, del tentativo di fuga (quasi sempre destinato a fallire), della punizione dello spione, della guardia carceraria sadica che gode nel seviziare i detenuti, la figura carismatica del “leader”, ecc. L’anno dopo, Howard Hawks dirige CODICE PENALE (CRIMINAL CODE), che introduce alcune novità rispetto al precedente. Mentre nel primo si lascia intendere che la galera è un luogo terribile in cui anche un essere innocente finisce per diventare un criminale incallito, nel secondo sembra affermarsi la teoria secondo cui la prigione può anche non essere la peggior cosa del mondo, ma un luogo dove si può stabilire forti relazioni di solidarietà e un severo codice d’onore anche per i delinquenti più duri. Hawks, come si sa, era uno spirito ottimista che riusciva a trovare cose positive anche là dove era difficile immaginarne. A lui interessavano le relazioni che si stabiliscono fra i detenuti e fra questi e le guardie. 

 

Nel film di Dassin, la cella R17 è un piccolo mondo dove il tipo di rapporto che si è creato è fatto di ricordi, ma anche di progetti, in cui c’è quindi spazio per la speranza. C’è un leader, Joe Collins (Burt Lancaster) e ci sono gli altri detenuti. Tutti lo apprezzano e accettano la sua leadership. La sua è un’autorevolezza che lo stesso capo delle guardie gli riconosce e che invano tenta di scalfire proponendogli patti o accordi seccamente rifiutati.

 

In FORZA BRUTA però, oltre a questi aspetti (che come si è detto sono degli stereotipi più o meno in vigore ancor oggi), andrebbe segnalato un elemento che, a mio avviso, gioca un ruolo che va al di là del puro e semplice film sulla prigione. Il produttore Mark Hellinger, molto interessato al mondo del crimine, da tempo accarezzava l’idea di produrre un film sulle carceri. Il regista, Jules Dassin, da parte sua, per le sue convinzioni politiche ed ideologiche (era stato membro del Partito comunista da cui era uscito dopo la firma del patto Ribbentrop-Molotov ed era stato “blacklisted”), vedeva nel mondo carcerario lo specchio della vita civile, dove cioè sono i malvagi e i potenti a sfruttare e seviziare i più deboli per raggiungere i propri obiettivi.

 

Questo orientamento ideologico fa sì che vengano, per certi versi, capovolti i termini del quadro sociale. In effetti, i carcerati della cella R17 sono uomini più o meno come quelli della porta accanto. Hanno commesso dei reati, è vero, ma il loro comportamento, le loro conversazioni e i loro progetti sono quelli di tutti noi. C’è chi vorrebbe ritirarsi a vita privata, chi metter su una squadra di pugilato, chi tornare dalla propria bella e chi, infine, come Joe Collins, tornare dalla sua ragazza ammalata di cancro per starle vicino e confortarla.

 

La durezza del carcere è rappresentata dal capo carceriere Munsey (Hume Cronyn), un essere spregevole, convinto che il mondo sia dei più forti e che con i carcerati ci sia bisogno soprattutto del pugno di ferro. La scena in cui colpisce ripetutamente con un tubo un detenuto inerme mentre ascolta Wagner, rimanda chiaramente alle crudeltà naziste (ancora ben presenti nella sensibilità comune, a due anni dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale), e stabilisce un chiaro parallelismo riguardo alla loro la condotta.

 

Eloquente, in proposito, è il dialogo-scontro fra Munsey e il dr. Walters (Art Smith), in cui si scontrano due visioni opposte del mondo carcerario e del mondo esterno. Il mondo, sembra suggerire il regista con le parole di Munsey, aiutato nella sceneggiatura da Richard Brooks (altro intellettuale di idee progressiste), è dominio dei forti. Non c’è posto per i deboli e cioè per coloro che nutrono sentimenti di solidarietà, di comprensione e di umanità. Walters, che i fumi dell’alcol hanno finalmente sciolto da ogni freno inibitore, spiattella tutta la propria disapprovazione e, Munsey, come da manuale, lo colpisce. La visione “rovesciata” del film ricorda ovviamente quella di GIUNGLA D’ASFALTO (THE ASPHALT JUNGLE) di John Huston che avrebbe girato tre anni dopo, nel 1950. La giungla della società, cosiddetta civile, è quella dei cosiddetti uomini rispettabili e insospettabili che con un tratto di penna mettono sul lastrico migliaia di lavoratori (e questo è un tema più che mai d’attualità, vero?) con favolosi guadagni illeciti, mentre non si perdona chi commette un errore anche modesto e non ha i mezzi per pagarsi un buon avvocato. E’ questa la base sociale da cui nasce e in cui si muove il film. Potremmo chiamare questi due film una specie di inizio di un filone social-gangsteristico che ha dato luogo a splendidi prodotti come BRUBAKER o NICK MANO FREDDA (COOL HAND LUKE)(di Stuart Rosenberg)o GANG (THIEVES LIKE US) di Robert Altman.

 

Vi sono altri aspetti che concorrono a rendere questo film tra i migliori del genere carcerario e un ottimo prodotto in generale. L’interpretazione di Lancaster, ad esempio, inserisce una carica di aggressività e di latente esplosività assolutamente determinanti per la tensione emotiva. Quando Edward G.Robinson nel suo libro All my Yesterdays, scrive che Lancaster manifestava  “quella vitalità animale, quello spirito vulcanico che ne avrebbe fatto inevitabilmente un divo”, esprime una verità lampante, del tutto condivisibile. E pensare che era una scelta di ripiego: si era pensato a Van Heflin, a Edmund O’Brien e a Wayne Norris. Inoltre, era riuscito ad ingannare Hellinger che voleva un attore un po’ sempliciotto. Nel provino, finse di essere il classico attoruccio di campagna, semplice e remissivo. Salvo poi, una volta assunto, sfoderare tutto il suo coté liberal-intellettuale. La storia del cinema è fatta di episodi come questi. Resta comunque il fatto che, pur al suo secondo ruolo, Lancaster entra di diritto nell’universo delle star con un’interpretazione che dà corpo e sostanza al film, sollevandolo da una possibile grigia storia di carcere finita male.

 

La musica di Miklos Rosza e la splendida fotografia in bianco e nero di William Daniels non sono elementi corollari ma essenziali per l’impatto emotivo del film.

 

 

 

 

 

 

 

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