Regia di Mario Bava vedi scheda film
Siamo nel ’70, all’inizio di un decennio che porterà fortuna al neonato thriller all’italiana, venato di horror, splatter e quant’altro. Bizzarro fin dalla nascita, il nostro genere “nero”, unico per schemi e modulazioni, ha in Bava il suo padre indiscutibile. Dall’horror gotico-morboso a quello fisico, passando per il giallo a tinte nere. Bava teorizza in ogni suo film il perchè del suo linguaggio e del genere che attraversa (ha fatto pure due western, il poliziesco disperato di “Cani Arrabbiati”, il sci-fi horror atto di nascita di quel fantahorror che ha generato gli Alien e i Predator di oggi, il fumettistico con “Diabolik”). In questo film, oltre ad una Laura Betti che è impossibile non identificare ogni volta con il lato perverso e oscuro di ognuno di noi, c’è un Stephen Forsythe bellissimo, in perfetta parte dandy, in cui il corpo ha più importanza del ruolo e dell’attore. Bello e statuario Forsythe ruba a Bava il concetto di follia, su concessione di Bava stesso ovviamente. É lui che è folle in quanto bello, seduttivo, ricco, potente, sprezzante, dandistico. La follia non è la normalità, se no saremmo tutti compromessi con la legge. E forse non lo siamo?
Una scena che vale un film: quella iniziale sul treno. Per il resto solita prassi decostruttiva baviana, colori pop, sagome, immagini ed edulcurazioni pop, in chiaro segno baviano. Un film che si allunga smisuratamente su una pervesione adulta, maturata nel trauma infantile, genesi orrorifica per eccellenza del cinema “nero” di quell’epoca. La famiglia, la coppia, il lavoro e perfino l’arte, appaiono tutte come situazioni di destabilizzazione dove l’occhio del regista guarda a tratti con distacco e a tratti con iperpartecipazione, tanto da deformarne contorni ed immagini, alla cadenza regolare della perpetuazione folle del desiderio castrato. Bava resta inimitabile anche se il film in sé conclude poco. Va detto che lascia però alterati i pruriti sessuali che avvertiamo ogni volta che l’illecito irrompe nel quotidiano.
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