Regia di Mario Bava vedi scheda film
Thriller visionario, con sviluppo narrativo poco efficace, mal sceneggiato, ma impreziosito dall'inarrivabile tecnica in regia del geniale Mario Bava. Opera esteticamente ineccepibile, in grado di farsi apprezzare per la sua raffinata composizione grafica e per una messa in scena di altissimo livello.
Parigi. Un trauma infantile muove la mano omicida di John Harrington (Stephen Forsyth), assassino seriale che ha preso di mira ragazze giovani, appena sposate, sorprese durante la luna di miele. Coniugato con la nobile Mildred Harrington (Laura Betti), dalla quale vorrebbe, inutilmente, divorziare, John è titolare di un atelier che confeziona abiti da sposa. Inizia ad uccidere le modelle del suo stesso studio ma, dopo avere eliminato Alice (Femi Benussi), rimane coinvolto in una relazione affettiva con Helen (Dagmar Lassander). Dopo il terzo delitto accertato e la scomparsa di quattro donne, l'ispettore Russel (Jesús Puente) inizia a indagare, orientando la sua indagine proprio nell'atelier di John.
"Una donna dovrebbe vivere solo fino alla prima notte di nozze, amare una volta e poi morire..."
(John Harrington)
Co-produzione tra Spagna, Francia e Italia, sceneggiata in maniera superficiale da Santiago Moncada (con contributi non accreditati dello stesso Mario Bava e di Laura Betti). Bava dirige con il suo solito inconfondibile gusto per l'immagine, utilizzando colori suggestivi (rosso, blu e verde), puntando a rendere stranianti le scenografie - in parte ispirate al precedente Sei donne per l'assassino (1964) -, grazie all'uso di filtri deformanti e giochi di luci che provocano ombre soffuse. Sul piano visivo, l'indimenticabile cineasta non si smentisce. Purtroppo la storia, evidentemente ispirata da Psycho (Alfred Hitchcock, 1960), non coinvolge: il protagonista, Stephen Forsyth, è un attore poco credibile nonché, in certi contesti, perfino ridicolo. La sua confessione, pronunciata sin dalle prime immagini del film, priva di interesse tutta la parte gialla, compresa la blanda investigazione di un ispettore che appare poco professionale e ancor meno credibile. Abbandonato l'aspetto narrativo, del tutto inefficace, Bava si concentra su quello estetico. Il rosso segno della follia rimane così un buon esempio delle invidiabili abilità tecniche del cineasta, orientato a comporre un'opera visionaria, in buona parte astratta (con sovrapposizione temporale tra gli anni d'infanzia e la triste maturità di John o con stravaganti apparizioni della moglie defunta). Opera minore, ma di fatto graficamente affascinante per via di scene eleganti e raffinate, rese con talento superiori allo standard sfruttando l'uso di carrelli, piano sequenza e punti macchina inusuali. Cast variegato e interessante, nel quale si distinguono due bellezze femminili poi destinate a presenziare in successive pellicole "sexy" (Femi Benussi e Dagmar Lassander), la sempre preziosa Laura Betti e, in una breve particina, il Peter Lorre tricolore (Luciano Pigozzi). Simpatica l'autocitazione di Mario Bava, fatta quando John Harrington si crea un alibi guardando un film in televisione: sullo schermo scorrono le immagini di Boris Karloff, dall'episodio I Wurdalak, contenuto nel capolavoro del regista, I tre volti della paura (1963). Bava ne andava fiero, stando a una sua affermazione: "... è un buon film, ne sono soddisfatto. È la storia del solito pazzo, ma ci ho potuto lavorare con calma, l'ho preparato con meticolosità [1]." Film purtroppo penalizzato da un mediocre doppiaggio successivo, realizzato in occasione di un passaggio televisivo, in quanto la versione con traccia audio originale sembra essere, ad oggi, andata persa.
Curiosità [2]
La villa in cui è stata girata la maggior parte del film, in passato, era stata la casa del dittatore spagnolo Generalissimo Francisco Franco.
Il rosso segno della follia è uno dei 13 titoli inclusi nel pacchetto "Nightmare Theatre di Avco Embassy", concepito per la diffusione televisiva nel 1975.
Citazione
"La morte esiste, ed è ciò che rende la vita un inutile e ridicolo dramma".
(John Harrington)
Laura Betti su Mario Bava e Il rosso segno della follia [3]
"Attraverso Pier Paolo Pasolini ho scoperto che il cinema mi piace, che vado pazza per il cinema, che quella del cinema è una vita da zingari divina. Mi piace la lavorazione di un film, tutto quello che succede in una lavorazione. Però sono stata molto presto presa e incartata e incasellata - perché in Italia c'è l'uso di fare tanti bei cassettini con l'etichetta e se non stai nell'etichetta, buonanotte - come attrice intellettuale. Sarà magari vero, non lo nego, perché sarebbe come dire che certe cose le capisco. Però è anche vero che mi piace tutto del cinema. Ho adorato fare un western con Corbucci in Spagna, in mezzo alla cacca dei cavalli, e ho adorato farvi la proprietaria di un bordello, che sono poi le cose classiche: immediatamente una si vede come Claire Trevor e via che la va! Con Bava addirittura sono stata io a telefonargli da Venezia dopo aver vinto la Coppa Volpi per Teorema, e non lo conoscevo affatto, per dirgli: 'Senta Bava, io adesso ci ho questa Coppa Volpi e quindi faccio anche noleggio, perché non mi prende in un suo film?'. Poi siamo diventati amicissimi, Bava era un personaggio divino! Ho fatto due film di seguito con lui. Il primo si chiamava qualcosa come Una rossa accetta per la luna di miele (Il rosso segno della follia), non ricordo più. Lì ero la protagonista. Poi Ecologia del delitto (Reazione a catena) e lì anche non ero male, del tutto senza collo! Bava era divino, veramente! (...) (Ne Il rosso segno della follia) c'era una scala ripidissima, e mi fece volare perché ero un fantasma. La macchina da presa l'aveva sistemata raso ultimo scalino, e dovevo salire dal basso, e mentre salivo lui muoveva la mano proprio davanti all'obiettivo e sullo schermo risultò che io volavo!"
Critica
"Ombre del passato, sanguinosi deliri, omicidi rituali s'intrecciano in un giallo 'sui generis' che Bava conduce con mano particolarmente ispirata. L'ambientazione è ancora una volta quella di un atelier di moda, i delitti sono accompagnati da una macabra cerimonia a base di carrilon e manichini vestiti da sposa. L'assassino, come Antonhy Perkins in Psycho, è ossessionato da visioni e ricordi agghiaccianti, perduto nella sua ineluttabile 'mostruosità'. Ma Il rosso segno della follia resta principalmente un film di Mario Bava, tra i suoi migliori, per la speciale dimensione che lo situa a metà strada tra il thriller classico e la raffinata storia di fantasmi, tematica narrativa particolarmente cara al regista italiano."
(Antonio Bruschini e Antonio Tentori) [4]
"Nel settembre-ottobre 1968 Bava gira in Spagna Un'accetta per la luna di miele. Il film esce nel giugno 1970 con il titolo Il rosso segno della follia dopo un supplemento di riprese all'inizio del 1969, inaugurando un periodo di produzioni tormentate e di distribuzioni difficili. Il set è una villa che pare appartenesse al Caudillo. La sceneggiatura è firmata dal prolifico Santiago Moncada, assai attivo nel cinema di genere iberico dell'epoca, e spesso disinvolto nei prestiti: e se la storia riecheggia elementi dei film di Alfred Hitchcock, come Io ti salverò, Psyco (Psycho, 1960) e Marnie (1964) è probabile che la responsabilità sia più dello sceneggiatore che di Bava. Il quale, per altro, mette mano al copione con maggior licenza del solito, dando maggior spazio al personaggio interpretato da Laura Betti, appena premiata a Venezia per Teorema (di Pier Paolo Pasolini, 1968) e subito disponibile a imbarcarsi in un'impresa ben diversa: segno del prestigio di cui poteva godere Bava anche in un milieu intellettuale. Il produttore Manuel Caño insiste per un'ambientazione parigina - malgrado i nomi inglesi dei personaggi - e impone a Bava di inserire brevi scene in esterno girate a Parigi. Bava si vendica, forse, facendo scrivere in un francese pieni di errori i titoli di un giornale. Sberleffo a parte, si tratta di uno dei film più controllati e personali di Bava, come mostra il fatto che torna a firmare la fotografia (...) Il film non lo va a vedere nessuno, malgrado una recensione lusinghiera di Tullio Kezich, che scrive: 'È apprezzabile per la qualità figurativa e l'eleganza di certe soluzioni quasi surrealiste'. Troppo poco per attirare il pubblico che nel febbraio 1970 ha decretato il successo di L'uccello dalle piume di cristallo. (...) Rispetto al thriller argentiano, presto oggetto di imitazione da un nuovo filone del cinema italiano, Bava sembra per il momento chiuso nel suo mondo, rivolto al passato."
(Alberto Pezzotta) [5]
"L'intreccio è quanto di meno equilibrato possibile: la sottotrama fantastico-sovrannaturale, ideata da Bava stesso quando la Betti si rese disponibile a lavorare con lui, cresce improvvisamente da una costola della sceneggiatura originale. Nell'atelier di Harrington, che si aggira tra i vestiti da sposa prima di compiere gli omicidi, tornano i manichini di Sei donne per l'assassino, che determinano, insieme alle immaginifiche sequenze dell'omicidio (basate questa volta più su effetti visivi che su immagini sanguinarie), l'atmosfera onirica del film. Se quelli del giallo del '64 avevano la funzione di equiparare i personaggi ad esanimi fantocci nelle mani del regista demiurgo, tema che avrà maggior sviluppo e portata teorica in Lisa e il diavolo, la funzione dei manichini in questo film contribuisce invece alla sua atmosfera surreale. Il simulacro che nell'attimo dell'omicidio 'sostituisce' visivamente Alice, una delle vittime, e la distruzione del suo cadavere in un forno crematorio, rimandano direttamente a Estasi di un delitto (1955) di Buñel e ai sui manichini come sostituti di omicidi mancati."
(Francesco Di Chiara) [6]
"Il rosso segno della follia è naturalmente quello del sangue per il regista Mario Bava, specialista in film dell'orrore ed esploratore delle più riposte pieghe dell'animo umano (...) La pellicola è diretta con accortezza da Bava, il quale bada meno alla plausibilità dell'intreccio che alla raffinata ambientazione e all'eleganza di movimenti di cinepresa..."
(Anonimo) [7]
"Nozze morganiche tra l'intellettualismo pasoliniano e il film dell'orrore: Laura Betti, ninfa egeria dell'autore di Teorema, in un thrilling di Mario Bava. Ligure, nato nel '14, operatore cinematografico dal '43, nell'ultimo decennio Bava si è affermato soprattutto all'estero come un maestro del brivido: in Francia certi critici lo mettono alla pari di Fellini, e lo chiamano le grand Bavà. Da noi, viceversa, film come La maschera del demonio o I tre volti della paura hanno dovuto accontentarsi di un successo marginale: la tradizione indigena, figurativa e letteraria, non contempla nessun omologo di Bosch o di Edgar Allan Poe, in Italia i mostri sono merce d'importazione come il giallo e la fantascienza. Certo che in questo campo l'autore di Ercole al centro della terra non ha niente da imparare da nessuno (...) Il rosso segno della follia è apprezzabile per la qualità figurativa e l'eleganza di certe soluzioni quasi surrealiste; anche l'interpretazione calcolata della Betti entra nel gioco con la giusta finezza. Ma lo spunto di partenza è vecchio (un maniaco che riscopre un trauma infantile massacrando le sposine) e l'immagine dell'assassino travestito da donna deriva da Psyco di Alfred Hitchcock."
(Tullio Kezich) [8]
"Malgrado la presenza di un atelier di moda come set del film, Il rosso segno della follia non è in alcun modo paragonabile al delirante Sei donne per l'assassino. L'elemento di mistero della pellicola è trascurabile: è chiaramente evidente chi ha ucciso la madre del pazzo (...) tuttavia, la pellicola paga i dividendi in termini di luci ed immagini, e le scene di Forsyth, vestito con un abito da sposa mentre insegue le sue vittime in mezzo ai manichini, sono indubbiamente efficaci (...) La colonna sonora schizzata di Sante Romitelli, che unisce i temi di paura frenetica con le melodie delicate del clavicembalo, aggiunge intensità."
(Adrian Luther Smith) [9]
Visto censura [10]
Con visto censura n. 55164, rilasciato in data 16 dicembre 1969, Il rosso segno della follia ottiene "nulla osta di proiezione in pubblico e per l'esportazione, con divieto di visione per i minori degli anni 18, per le scene allucinanti e raccapriccianti che costituiscono dalla trama del film; e pertanto, controindicato alla particolare sensibilità dell'età evolutiva dei predetti minori."
Metri di pellicola dichiarati: 2475 (circa 91' in proiezione cinematografica).
Il 21 marzo 2007, con nuovo n.o. (n. 100255), una versione censurata del film ottiene la derubricazione con eliminazione del divieto. Dal verbale allegato al nulla osta: "(...) sono state apportate modifiche e tagli per i quali il divieto potrebbe risultare inesistente. La commissione dopo approfondito dibattito, dato il lungo tempo trascorso ed i tagli effettuati, concede il nulla osta di proiezione in pubblico, senza limiti di età."
NOTE
[1] "Operazione Paura," in Horror n. 13 (Sansoni editore), 1970.
[2] Dall'imdb.
[3] "Mario Bava - I mille volti della paura" (Profondo rosso edizioni), pag. 141 - 142.
[4] "Profonde tenebre - Il cinema thrilling italiano 1962 - 1982" (Granata edizioni), pag. 12.
[5] "Mario Bava" (Il Castoro cinema), pag. 94 - 95.
[6] Le urla e il furore, in "Kill baby kill! Il cinema di Mario Bava" (edizioni Un Mondo a Parte), pag. 117.
[7] "La Stampa", 5 giugno 1970.
[8] "Panorama" (1970), in Il Millefilm.
[9] "Blood and Black Lace: the Definitive Guide to Italian Sex and Horror Movies" (Stray Cat Publishing).
[10] Dal sito "Italia Taglia".
"Come la pazzia, in un certo senso elevato, è l'inizio di ogni sapienza, così la schizofrenia è l'inizio di tutte le arti, di ogni fantasia."
(Hermann Hesse)
"Non so essere serio, mi viene sempre da scherzare. Come potrei prendere sul serio questo enorme, assurdo baraccone?"
(Mario Bava)
Trailer
F.P. 10/12/2022 - Versione visionata in lingua italiana - DVD Pulp Video 1a ed. (durata: 84'32")
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