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La mia cena con Andre

Regia di Louis Malle vedi scheda film

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La recensione su La mia cena con Andre

di OGM
8 stelle

Un Louis Malle che pochi conoscono. Un film tratto da una pièce teatrale, di cui  i due protagonisti sono anche gli autori e gli interpreti: Wallace Shawn ad Andre Gregory, commediografi in crisi creativa, che, dopo essersi persi di vista per diversi anni, si rincontrano, da vecchi amici, a cena, per raccontarsi le proprie esperienze e ritrovare, insieme, lo spunto per tornare a scrivere. La loro conversazione al tavolo di un elegante ristorante newyorchese, ripresa a camera fissa, occupa l’intera durata del film e, benché basata su una precisa sceneggiatura, è il documento di un colloquio realmente avvenuto, che ha fornito, contemporaneamente, la motivazione ed il contenuto dell’opera.  Ad un Wallace afflitto da problemi economici, e quindi tendente al pragmatismo, si contrappone un Andre sognatore, che ha abbandonato il lavoro e la famiglia per intraprendere fantasiosi viaggi  alla ricerca di un nuovo modo di vedere la vita. In un laboratorio di improvvisazione organizzato, con il metodo Stanislawski, in una foresta della Polonia, Andre dice di aver scoperto la differenza tra la finzione quotidiana che ci è imposta dal nostro ruolo sociale, e la nostra vera essenza, che è spontaneamente drammatica, sentimentale, avventurosa, e dà luogo, di per sé, ad una sorprendente forma d’arte. Il fenomeno dell’alveare (beehive) è quel “caleidoscopio” umano che prende forma quando una moltitudine di persone entra in una stanza, ed ognuna di esse viene invitata a dare libero sfogo alla propria individualità. Ne scaturisce una composizione dinamica ed armoniosa, in cui i gruppi si aggregano e si disfano come in una danza. La verità non segue, quindi, la regolarità della routine, che è imposta dall’esterno, ed imprigiona innaturalmente il nostro slancio vitale: vivere l’autenticità del nostro essere significa tenere la coscienza aperta agli stimoli ed agli impulsi, cogliendo, in ogni istante, il suo originale contributo di sensazioni nuove e nuove conoscenze. Andre, sulla scia della visione new age della comunità scozzese di Findhorn, propugna un ritorno ad un  primitivo contatto con il mondo, ad un linguaggio che ci consenta di parlare agli alberi e agli insetti, condividendo con loro, pacificamente, il suolo. L’abitudine è la veste della civiltà, che, di fatto, ci rende ciechi e inerti, incapaci di avvertire i segnali provenienti dall’ambiente circostante e di usarli per decidere la direzione da prendere.  I condizionamenti sociali ci hanno addormentato, riempiendo la nostra esistenza di tanti futili obiettivi che ci impegnano meccanicamente, come tanti robot, ma, in effetti, non ci appartengono. Il risveglio è possibile solo con il cambiamento, con il rifiuto del comune buonsenso, che, in ogni momento, cerca, istintivamente, soltanto la conferma di ciò che la ragione ci consegna come ovvio, o comunque acquisito: per contro, un monaco buddhista insegna che se la mano destra brucia quando la si posa sulla fiamma, la stessa cosa potrebbe non valere per la mano sinistra. Il compito della letteratura dovrebbe allora essere quello di rappresentare il mondo in maniera diversa da come il pubblico crede che esso sia: è inutile riproporre il solito quadro pessimista, il consueto realismo che dipinge l’uomo come una creatura fondamentalmente cinica e malvagia. La vera conoscenza inizia con la negazione, con la spogliazione dalle certezze, che spesso sono assunte come tali solo per effetto di una superficiale generalizzazione. Noi  siamo avvezzi a sovrapporre alle cose, pigramente, le stesse, poche schematiche categorie, che non ci permettono, però, di cogliere le peculiarità inedite, le distinzioni fini, che sfuggono ad una classificazione così grossolana. Con l’altro da noi non c’è, dunque, vera comunicazione, perché le parole non rispondono all’oggetto, bensì alle idee che esistono a priori, che sono condivise per tradizione, e non interagiscono con i singoli, svariati casi che concretamente si presentano. Wallace ricorda come, talvolta, gli amici, a cui gli capita di confidare una sua preoccupazione, si limitino a rievocare, dal passato, una loro situazione analoga, anziché  sforzarsi di intervenire per dargli conforto; e come spesso, per esprimere un timore o un desiderio, si ricorra a metafore, a simboli, a situazioni ipotetiche costruite intorno a personaggi famosi, spostando il discorso su un campo neutro e surreale, onde evitare ogni riferimento alla propria specifica condizione. Il nostro vizio è pescare dal catalogo della storia, dal repertorio collettivo invece di creare ex novo in base alla nostra personale percezione del presente. Per Andre, il rimedio passa attraverso le esperienze estreme; e gli esempi che porta sono, non a caso, sempre relativi a una messa in scena, come la temeraria impresa di girare Il piccolo principe nel deserto, o l’incubo di una festa di Halloween in cui gli invitati vengono denudati, deposti in una fossa e coperti di terra. Solo una doccia bollente o una doccia gelida possono ridestarci dal dreamworld in cui i mass media  hanno rinchiuso la nostra mente; solo così potremo finalmente accorgerci di esistere, e di aver accanto qualcun altro: una scoperta compiuta in modo diretto e aperto, indipendente dalle attività che esercitiamo e su cui, troppo spesso, ci basiamo per definire noi ed il nostro rapporto col prossimo.

La mia cena con Andre è un dialogo che rovescia la logica della rivelazione, dell’indagine, della confessione, perché punta a porre in luce ciò che gli interlocutori non sono, o che non vorrebbero essere, e ciò che, soltanto in prima approssimazione, possono, forse, cominciare a diventare.

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