Regia di Kenji Mizoguchi vedi scheda film
Utamaro Kitagawa fu autore di circa 2000 stampe di ritratti femminili che spopolarono in Europa nella seconda metà dell'800', consacrando l'artista a fama internazionale a poco più di 60 anni dalla sua morte, eppure di tale figura si conosce ben poco a livello biografico e le fonti in materia sono tutte contraddittorie tra loro, in questa confusione s'innesta la macchina da presa di Kenji Mizoguchi, che non confeziona nè un film in costume vero e proprio, nè un biopic nel senso classico del termine sulla vita di un'artista sorto ad emblema dell'intellettuale anti-cortigiano, scegliendo di non piegarsi in alcun modo all'arte ufficiale della scuola di Kano incentivata e sostenuta dallo shogunato, poichè parte della tradizione secolare del Giappone.
Seinosuke (Kotaro Bando), discendente di una famiglia di samurai, è dotato di un sicuro avvenire artistico dati i suoi ritratti che rispettano appieno la tradizione, la vista delle stampe di Utamaro, fautore di una nuova corrente artistica che sfrutta sapientemente le luci e le ombre per far risaltare l'umanità delle donne ritratte, porta il giovane a sfidare tale maestro uscendone sconfitto, decidendo così di diventare suo allievo, a costo di lasciare una posizione altolocata sicura e rompere il fidanzamento con Yukie (Eiko Ohara).
Utamaro è un semplice artigiano, quindi appartiene ad una classe sociale inferiore rispetto a quella della stragrande maggioranza degli artisti del suo tempo, ciò per l'uomo non è di alcun problema, visto che la sua linfa artistica trae tutta la propria potenza dal soffio vitale che pervade il suo vissuto, fatto di tanti piccol piaceri quotidiani gozzovigliando e bevendo sakè in continuazione nelle varie taverne in cui sovente si ferma con la propria comitiva, circondato spesso da compagnie femminili di varia estrazione sociale, le quali sono muse ispiratrici della sua arte.
Utamaro non è quindi il classico artista "maledetto" nel condurre la propria esistenza, nè un genio incompreso, ma viene ritratto da Mizoguchi come un pittore "popolare", che rifiuta l'alto per vivere al contatto con la gente comune, respirandone la stessa aria e interfacciandosi con le loro miserie quotidiane, cercando di avere per quanto possibile (ma non sempre vi riesce) un distacco adeguato, per non lasciarsi trascinare nelle passioni del popolo in modo da mantenere sempre il primato dell'arte rispetto al soggetto femminile che gli funge da ispirazione.
Facile fare un parallelismo tra la figura di Utamaro con quella dello stesso Mizoguchi, cosa in parte confermata dallo sceneggiatore Yoshitaka Yoda, d'altronde per entrambe le figure, la fama artistica è dovuta all'abilità unica e sopraffina nel ritrarre l'umanità delle donne, cogliendone i dolori e le sofferenze per le miserie alle quali sono costrette, tramite Okita (Kinuyu Tanaka) il regista coglie l'emblema dell'eroina femminile del suo cinema, che denuncia l'iniquità della società verso la donna, ma argomentando comunque il suo gesto estremo con la fedeltà ai propri sentimenti, per Utamaro la confessione di Okita, diventa un fremito impulsivo che muove le sue mani incapaci di stare ferme, poichè sentono il bisogno di sfogare su carta l'umanità pulsante di un personaggio femminile straziato nell'animo. Sviluppato in una originale forma corale per l'epoca, la figura artistica di Utamaro è solo il centro di gravità, che tiene legati a sè i vari personaggi di una pellicola priva di una trama vera e propria, che si snoda attraverso vari personaggi, ritratti dai classici longtake dalla durata di un'intera sequenza, con cui Mizoguchi raggiungerà la totale padronanza espressiva, estetica e tecnica nei suoi grandi capolavori degli anni 50' e che aveva poco a poco sviluppato negli anni precedenti, mettendo le sue abilità registiche al servizio di una pellicola che si pone come intenso elogio dell'arte, capace di rappresentare al meglio quella bellezza senza filtri e non sempre facile da riconoscere.
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