Regia di Danis Tanovic vedi scheda film
Questa è la classica dimostrazione, se ancora avessimo avuto necessità di “accertamenti in questo senso”, che non è tanto (o non solo) lo script che conta, ma la “mano” di chi guida e coordina il tutto a determinare il risultato. Certo che senza un soggetto “esemplare”, con una sceneggiatura “pencolante”, risulta spesso più difficoltoso orientare in maniera adeguata lo sguardo (ma ci sono anche eccezioni significative al riguardo… eccome!!!) e può succedere persino che un buon supporto di “scrittura creativa” si trasformi invece in una pesante, ingombrante zavorra addirittura imbarazzante, densa di incongruenze e di lacune che ne “soffocano” le qualità oggettive se c’è una mancanza di una “sintonia della visione” al momento di trasformarla in immagini, se difetta quella affinità creativa indispensabile per far coagulare la materia e che finisce invece per determinare una frizione capace di incidere significativamente su un percorso che diventa sempre più discordante e divergente, destinato per questo, al “deragliamento” finale, come appunto nel caso in oggetto. E allora rimane soltanto il fastidio del “fallimento” per una realizzazione che lascia intravedere la “presunzione autoriale” di chi non ha voluto (o non è stato capace di farlo) tenere in giusta considerazione, come sarebbe stato invece necessario, la progettualità iniziale di una “eredità” forse ingombrante, ma evidente e significativa e dalla quale non era possibile forse prescindere, finendo così per evidenziare in maniera inconciliabile, l’inesorabile, incolmabile discrepanza fra le certamente “nobili” intenzioni programmatiche della partenza e il (quasi) disastroso approdo (verrebbe voglia di dire che… purtroppo “di buone intenzioni è lastricato ‘l’enfer’”). Così si può a mio avviso sintetizzare il disappunto suscitato dalla visione di quest’ultima opera di Tanovic, concepita sulla base della sceneggiatura di Krzysztof Piesiewicz - pamphlet a tesi realizzato come di consueto “a misura d’uomo” - per uno dei capitoli dell’ultima trilogia “immaginata” dal grande Kieslowski e rimasta purtroppo “inevasa” a causa della sua improvvisa e prematura dipartita. Il film che ci viene mostrato risulta così pesantemente “caricato” di esasperate simbologie e di sottintesi significati non tutti chiaramente “decodificabili”, capaci paradossalmente – causa saturazione da “accumulo” - di “soffocare” inesorabilmente (e rendere quasi inaccessibili) le emozioni che pure si “avvertono” prepotentemente palpabili, ma così esacerbatamente estremizzate ed insistite, da dissolversi nella rabbia e nel disappunto dell’occasione perduta di chi – come me - di fronte alla esibizione di tanto “accentuato virtuosismo” spesso debordante e fine a se stesso, è inevitabilmente portato a rimpiangere l’occasione perduta e a “immaginare” recriminando, che cosa poteva invece essere “L’Enfer” se la morte non avesse impedito a Kieslowski di portare a compimento l’impresa, tanto da avvertire prepotentemente la “necessità” (visto l’esito ancor più devastato dello “scempio” compiuto su un altro capitolo di questo progetto, “Il paradiso”) di “diffidare” i produttori, dal portare a compimento l’esecuzione operativa della terza parte per evitare una ulteriore analoga “delusione”. Le “esplorazioni” Kieslowoskiane utilizzano spesso “racconti” che sono “parabole” dogmatiche di intransigente radicalismo appositamente “costruite” per essere interpretate e risolte secondo quella che era la sua particolare visione di cinema, non solo come “costruzione” ma anche come “messaggio formativo” (e a questo punto mi sento di affermare che sono – purtroppo – “inscindibili”, non ammettono il “trasferimento”). Se viene a mancare il suo sguardo… (mi viene da definirlo “francescano”) l’equilibrio si incrina e l’introspezione meno pregnante, fino a farci definitivamente smarrire il senso ultimo dell’operazione. Si finiscono infatti per perdere i rapporti dell’armonia e dell’equilibrio, e rimangono solo delle “storie” (o – a volte – persino delle “storiacce”) come tante che mettono in evidenza in narrazioni spesso convulsamente compulsive, “difetti” strutturali nelle sue mani inesistenti… diventando persino insopportabilmente tediose. Certo Tanovic non è Kieslowski e non si poteva immaginare o supporre una “impossibile clonazione” di quelle particolarissime “qualità stilistiche” irrimediabilmente perdute. Ho per questo decisamente apprezzato la sua “disperata” ricerca di una via originale in antitesi con l’emulazione pedissequa, il grosso impegno dimostrato per cercare di “discostarsi differenziandosi”, e sotto il profilo delle riprese, dei movimenti di macchina, della costruzione delle immagini, del lavoro sugli attori, dell’utilizzo cromatico della tavolozza (e qui nelle sfumature delle tonalità utilizzate per definire i tre personaggi femminili, l’omaggio al “maestro” è palese: non a caso rosso…. bianco… blu per “segnare” le sequenze di ciascuna delle tre bravissime protagoniste) il percorso è stato esemplare e certamente faticoso (forse troppo “ridondante” ed esageratamente “caricato” nei risultati pratici anche a livello di drammaticizzazione o di simbologie esplicative), che conferma uno studio non casuale e molto articolato, un approccio ragionato e non superficiale – ma non sufficiente - per sopperire in qualche modo per lo meno formalmente, alla cosciente consapevolezza di non possedere la “poetica” necessaria per penetrare all’interno della materia con le indispensabili capacità “dissezionatrici” (forse elaborato in maniera così “esuberante” proprio per tentare di “colmare” il divario esistente anche sotto il profilo del “talento”, che nemmeno in Tanovic difetta, intendiamoci bene, ma che forse è semplicemente diversamente orientato). Le personalità creative dei due registi, sono evidentemente in antitesi, e quella di Tanovic, che ha dato precedentemente prove di ben altro spessore, sembra risultare incompatibilmente “dissonante” rispetto alle modalità Kieslowskaine per le quali il soggetto era stato concepito (e forse avrebbe dovuto avere il “coraggio critico” di rinunciare). E proprio per questo, alla fine… non tutti i conti sembrano tornare, così da farmi uscire dalla sala con un “insostenibile senso di disagio” che mi ha accompagnato ben oltre la visione di una pellicola che risulta, per altro, notevolmente sbilanciata fra una prima parte (per la verità quasi i tre quarti dell’opera) che è solo “illustrativa” di tre disgregazioni parallele che neppure sembrano collimare, e una conclusione che è anche la spiegazione e il “coagulo” delle tre “distorsioni”, così “torbidamente densa” di crudeli rivelazioni che costituiscono l’entroterra e la radice di quei bisogni “ossessivi” che minano e rendono impossibili i rapporti che assume le frettolose dimensioni di un capitolo a se stante che mal si amalgama con la precedente lentezza dell’assunto di storie semplicemente in parallelo, né è (a mio modesto avviso) nemmeno capace di farci percepire (o almeno a me non è riuscito di percepirlo fino in fondo emotivamente parlando) la effettiva “portata tragica” degli eventi. Non un film superficiale né mal fatto si intende (solo fortemente carico di presunzione). Gli ingredienti sono tutti al loro posto, è semplicemente la mano del cuoco che sbaglia i tempi di cottura e che risulta un po’ troppo “pesante” e portata ad eccedere nei dosaggi, così esageratamente creativa negli abbinamenti nella impossibile speranza, con l’aggiunta di qualche “sapore forte” in sovrabbondanza, di poter alterare a proprio favore il risultato finale. Concludendo insomma, credo che si possa in qualche modo identificare il disagio dell’autore, identificandolo (utilizzando una metafora a mio avviso assolutamente pertinente) in quell’ape che, caduta nel bicchiere colmo di miele per troppa golosità – in una delle più splendenti e poeticizzate sequenze, giustamente citata con la positività che merita da Aquilant nella sua puntuale “diagnosi clinica” dell’opera - ha difficoltà a districarsi in quel liquido vischioso e inebriante e rischia di soccombere. C’è semmai il rammarico che a differenza dell’ape, che poi riesce faticosamente a ritrovare la via della “risalita”, lui, il regista, non sia invece stato in grado di “recuperare” la sintesi (il cucchiaino per riappropriarsi del bordo del bicchiere ) arrivando ad una conclusione con quel “Je ne regrette rien” che poco spiega e nulla aggiunge e non consente per questo una adeguata riflessione critica capace di fornire una diversa luce interpretativa degli avvenimenti precedentemente narrati.
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