Regia di Marina de Van vedi scheda film
L'irragionevole tendenza a farsi del male concretamente -non in senso metaforico- è uno stato psicologico purtroppo reale. Rarissimo (per fortuna) e spesso limitato, senza cioè concludersi nel suicidio. Marina de Van si spinge oltre, aggiungendo l'inconcepibile gusto per la propria carne: l'autofagia.
Esther (Marina de Van) ha un radioso futuro essendo stata promossa con qualifica di manager sul posto di lavoro. Non solo: anche il suo compagno ha trovato un lavoro gratificante che permetterà, alla coppia, di acquistare un appartamento e di convivere assieme. Durante una festa, Esther si ferisce a una gamba. Non avvertendo dolori, solo più tardi si accorge che sta sanguinando. Questo incidente fa scattare nella mente della ragazza un meccanismo autolesionista. Saggiare il suo sangue e straziare la sua carne, provoca in Esther un ludico - per quanto illogico - appagamento.
Sconcertante debutto anche in regia (poiché già attrice e sceneggiatrice per François Ozon) per Marina de Van che cura ogni aspetto di questa spiazzante e non catalogabile opera prima. Oltre al testo e alla regia, Marina ricopre il difficile ruolo di Esther, persona che, definire problematica, è un eufemismo. Senza alcuna ragione specifica, ovvero per imponderabili necessità di un istinto deviato, la protagonista si addentra in un percorso autolesionista, trovando un perverso -quanto desolante- piacere nel tormentare la sua stessa carne, fino ad arrivare all'estremo atto di assaporarla. Nonostante il tema, forte e potentemente dissacrante, Dans ma peau si protrae per oltre un'ora lanciando deboli avvisaglie che portano, con ovvietà disarmante, a prevedere verso quale conclusione potrebbe giungere Esther. Per certi aspetti è inquietante vederla giocare con un coltello appuntito sul suo viso insanguinato, o trattare lembi di pelle conciandola come cuoio. Ma la forza eversiva del film non si spinge dove dovrebbe. Rinuncia all'eccesso. E si chiude vigliaccamente, in un illogico e inatteso atto autocensorio. Rimane un'opera coraggiosa, certo, sviluppata su un tema (l'antropofagia declinata anche in versione selfie) che sembra caro -e ci vorrebbe un buono psicologo per capirne i motivi- alle autrici di sesso femminile, peraltro francesi (quasi tutte esordienti) come testimoniano il contemporaneo film di Claire Denis (Cannibal love) o il più recente -e bellissimo- Raw di Julia Ducournau.
Nel 2013, anche un uomo, Jimmy Weber, azzarda il debutto dietro la macchina da presa raccontando di una ragazza problematica e autolesionista: il film si intitola Eat, e si spinge ben oltre arrivando sino alle estreme conseguenze. Non solo, paradossalmente (perché opera maschile) è quello che meglio prende le difese del sesso debole, elevandolo ben al di sopra delle miserie imposte da uomini potenti, arroganti e meschini. Danse ma peau, invece e purtroppo, non ha il dono dell'originalità, né tantomeno quello del coraggio. Si chiude su se stesso senza troppe scuotere lo spettatore. La de Van, ottima come interprete, mostra invece carenze in veste di regista: tenta un uso spregiudicato del mezzo con risultati talvolta deludenti (il brutto -qui- uso dello split screen), e forse non è un caso che, in sedici anni, abbia girato solo altri due film (Non ti voltare e Dark touch).
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