Regia di Marina de Van vedi scheda film
La morte dell'estetica, il sogno della carne, Resistenza attiva e priva di contenuto. Dans ma peau è tutto questo, un canto funebre di un modo di fare cinema e di fare arte, la fine di un'apparire che si martorizza, si deflagra, si tagliuzza. Non ci sono parole per spiegare la dedizione con cui Esther (non a caso interpretata dalla stessa regista) scava nella sua pelle per cogliere forse qualcosa in più di sé, forse per capire meglio se stessa, o forse per incarnare in se stessa quella tesissima curiosità vana e inutile che contraddistingue l'uomo. Tanto vana, quella curiosità, da essersi scordata del suo oggetto. Spaccando il dualismo anima e corpo ma paradossalmente rispettandolo, giungendo a conclusioni quasi apocalittiche e poco dissimulate, il film di Marina De Van propone una fantasia perversa e di difficile accettazione in cui il corpo si ribella all'anima come l'estetica si ribella all'etica, e tanto è ostinata questa ribellione (l'inspiegabile volontà autolesionistica di Esther) da perdere essa stessa il suo significato ultimo, da svuotarsi, arrivando ad insinuare un'inutilità esistenziale dell'arte. Così il corpo della De Van, magro e abbastanza respingente (quella pelle che si piega vicino il ventre, quelle costole tanto pronunciate sotto il seno..), finisce per incorporare nel senso più carnale del termine l'insensatezza (della vita, dell'arte), un'insensatezza che però si ritrova anche nella stessa autodistruzione: l'arte non è più difesa dalla realtà ma non può fare altro che parlare di se stessa, si risponde all'insensatezza del tedio di vita a un'insensata ricerca del Nulla. Un rincorrersi di vuoti. Lo specchio è deforme solo in alcuni punti, e Dans ma peau, che tanto in più momenti sembra un film normale (benché privo di una vera e propria trama), si getta in funesti (e calcolati) sprazzi di cinismo autoriale e di abissale nichilismo, tanto da non aggiudicare nessun tipo di piacere o anche dolore agli atti alla fine autolesivi e autocannibalici della protagonista. L'azione del film, infatti, va considerata (e apprezzata) in funzione della negazione delle risoluzioni (più semplici): non è masochismo perché non è autopunizione; non è masochismo perché non è piacere del dolore fisico; non c'è sofferenza e non c'è gioia. Dentro l'uomo non è rimasto nulla, e questo Nulla è talmente asfissiante da aver privato anche il corpo stesso della sensatezza contingente delle affezioni sensibili (la natura disgustosa e agghiacciante di un uomo che taglia una fetta di carne), gettando la razza umana in pasto ad un buco nero privo di qualsiasi logica, sentimento, istinto. L'importanza del film sta nella scoperta, da parte della protagonista, di una nuova sfera umana, quella che non risponde a Nulla, il quarto segmento dell'essere umano dopo la bestialità, la ragione e il sentimento, il vuoto del senso che vede in se stesso consapevolezza e inconsapevolezza, visione e cecità, in dimensioni talmente confuse da rendere, alla fine, le prime tre parti dell'essere umano (appunto, sensibilità, intelletto e sentimento) inutili, confuse, andate perdute. Differentemente da un'umanità che sembra rincorrere il successo o ancora, più in generale, il senso (il fidanzato), Esther diventa un'eroina paradossale fatta di carne che non soffre e non gode e che si può mortificare senza giungere ad alcun tipo di senso di colpa. Lo sfogo personale della De Van diventa sfogo di un'intera forma artistica, e l'uomo torna ad essere, ancora paradossalmente, criterio fisico di paragone. Perché Esther non odia il suo corpo, né lo ama, adora ciò che sta in mezzo fra la sua capacità di amarlo (l'anima) e l'oggetto dell'amore stesso (il corpo), in summa il senso della vista e della percezione, il filo sottile e invisible dell'(auto)esibizione. Mostrare ad altri e mostrare a se stesso, specie dopo un'alienazione che ha perso moventi sociali ed è passaggio inevitabile dello stadio umano. Marina De Van guarda se stessa e si vede distrutta, affronta il peso di un'Apocalisse sulla propria carne, si sacrifica in nome di una coerenza con la mancanza di senso. Sopravvive solo la percezione dell'immagine, il contenuto dell'immagine e l'immagine in se stessa (l'immagine autonoma, priva di spettatore, se può mai esistere) muoiono.
Che forse però la De Van si rincorra così tanto, nel film, da "esibire" un'opera a tesi? La sensazione che percorre e mozza il fascino del film, di per sé interessante e unico, sta nella dimostrazione esplicita di un commento, di una voce, di un'univocità delle immagini. Non lascia scampo, Dans ma peau è talmente estremo da risultare poco malleabile, e persino Antichrist apriva a più interpretazioni. Questo della De Van, benché superiore al film di von Trier, pecca di immobilismo tematico. Il fatto che il tema sia il vuoto, poi, le rende tutto paradossalmente più facile.
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