Regia di Mamad Haghigat vedi scheda film
Abbas Kiarostami ha insegnato al cinema iraniano l’ingenuità. E Mamad Haghigat l’ha trasformata in sinfonia: quella che fa da sfondo ad un idillio sentimentale fra due adolescenti, Alì e Azar. Lui suona il ney, lei il daf: due tradizionali strumenti della loro terra, un flauto di legno ed un tamburo a cornice di origine curda. Per il ragazzo, dedicarsi a quella sua passione, scoperta per caso, significa ribellarsi alla volontà del padre, che lo vorrebbe esclusivamente dedito al lavoro, nel panificio di famiglia, e allo studio del Corano. La rivoluzione si fa melodia, come più tardi ne I Gatti Persiani di Bahman Ghobadi, ma questa volta il rock e le moderne influenze occidentali non c’entrano. L’arte è espressione di libertà anche quando è una creazione autoctona e antica, ed è, anche in questo caso, veicolo di progresso culturale. La tradizione, infatti, ha due facce: quella oscurantista e sanguinaria che richiede sacrifici umani, e quella saggia e pacifica, radicata nella semplicità d’animo e in un’ancestrale armonia con la natura. Due volti contrastanti, che in questo film hanno le sembianze dello stesso attore, sdoppiato tra il ruolo del padre padrone e quello del pastore di capre che, in mezzo la deserto, inizia il giovane Alì alle meraviglie della musica. I diavoli e gli angeli si contendono il dominio sulla religione, che è fonte di guerre infernali come di grandiosi miracoli. L’universo, del resto, è diviso tra i quattro elementi fondamentali, dei quali il fuoco è il più crudele: è quello di cui è fatto Lucifero, che precipita al suolo per essersi bruciato le ali. Il suono, invece, è aria, una sostanza impalpabile ed innocua, come le anime dei defunti che parlano attraverso il vento. In questa storia, breve e sommessa, si avverte in sottofondo una timida punta di nostalgia per un’epoca dorata, persa nel tempo, in cui era ancora possibile sognare, senza sentire incombere, su di sé, le minacce di un potere dispotico e integralista. Nel mausoleo di Hussein, un martire musulmano che morì decapitato, si prega pubblicamente per espiare i propri peccati, mentre altrove, in una solitaria intimità, si onora Dio cercando di imitare le voci del Creato. Per dirlo con le parole del maestro di Alì: Lo scroscio delle cascate, lo sgocciolio dell’acqua nelle caverne, il canto degli uccelli, il vento che soffia tra le rose. Tutto questo, ragazzi, è ritmo e, soprattutto, è musica. Inoltre, come possiamo leggere nella Genesi, quando lo spirito voleva entrare nel corpo di Adamo, necessitava di un intermediario. Volete sapere chi era, quell’intermediario?L’armonia.
Questo film, carico di una curiosità ed una stravaganza tipicamente infantili, parla allo spettatore col tono affettuosamente didascalico di una favola raccontata a un bambino. La lamentosa teatralità del pianto, la tenera luminosità del sorriso, il capriccio, la punizione, la penitenza sono gli elementi tipici del racconto che vuol spiegare i fatti della vita attraverso scene ad effetto, e con piccoli esempi a portata di mano, quali sono le schermaglie che si svolgono, nel quotidiano, tra il bene e il male. Ma questa volta la morale non è tanto facile da assimilare, perché il mondo non è nettamente distinto tra buoni e cattivi, bensì è, molto più realisticamente, la sede di un complesso confronto tra innocenti e colpevoli, tra il torto e la ragione; e intanto la giustizia divina si confonde, drammaticamente, col dolore umano.
Deux fereshté (Due angeli) è stato presentato, nel 2003, nella selezione ufficiale del Festival di Cannes. È il primo film diretto da Mamad Haghigat, classe 1951, di professione critico cinematografico.
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