Regia di John Hillcoat vedi scheda film
Di animo malickiano il film di Hillcoat perde sul più bello. Parte come l’esempio concreto della lezione di Terrence Malick, per poi perdersi, sfilarsi, annoiare e annoiarsi. Sicuramente è fascinoso, seduttivo. Il film è tutto concentrato sul bel fisico nervoso e secco di Guy Pearce, che nell’incontro con John Hurt è la copia sputata del Clint Eastwood leoniano. Infatti si parla di una terra secca, asciutta di acqua come di sentimenti, valori e passioni. Ci sono piatte distese di terra secca così come piatto è il ventre e il petto di Pearce. Quella terra seduce, ma non perchè sia rigogliosa, rassicurante o bella perchè utile, ma perchè è arcigna, inospitale, a tratti ripugnante. Pearce, e il suo personaggio, fanno lo stesso. Seducono perchè impropri. Pearce seduce perchè il suo fisico è sì definito, ma non in carne come quello di molti suoi colleghi. In conclusione un personaggio che si rispecchia nella sua terra, che a sua volta esiste perchè esiste chi la rappresenta.
Un western australiano che attraversa i codici del genere dilatandone il guizzo lirico. L’azione c’è, ma non si vede, e la scrittura di Nick Cave addirittura si sente. Tant’è che il film affascina più per l’idea stessa di un uomo che per salvare un fratello ne deve uccidere un altro, che per l’itere finale della narrazione. Resta comunque un film di difficile visione, e per questo coraggioso e affascinante. Punta il dito sulla “missionarietà” del mondo civile che poi tanto civile non è se non agli occhi di se stesso, e che con il personaggio di Ray Winstone deforma la negatività militare-istituzionale passando poi alla moglie Emily Watson la palla di arcigna megera conservatrice e retriva che è poi la causa di tutto il sangue versato: la sicurezza. Che sia una donna, generatrice di nuova vita, a portare i segni della destabilizzazione non è di poco conto. Ma il film, come detto in apertura, non picchia duro là dove il western dovrebbe, e resta solo un bel diorama, straordinariamente visivo, in cui caratteri mitici come il cavaliere solitario, il militare cattivo, il cacciatore di taglie e l’uomo-selvatico, potevano essere approfonditi meglio, non psicologicamente, ma bensì narrativamente. Dando così al loro “segno” attoriale, quello fisico e plastico, il vettore di tutta un’emozione.
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