Regia di John Carpenter vedi scheda film
In questo film, la realtà inquieta e magica di Carpenter si tinge, con ironia, di un sontuoso colore asiatico. Il regista trova nelle arti marziali quel corposo mix di leggenda ed azione che è l'essenza primigenia della fantascienza. Questa non è, per lui, la favola degli esseri alieni e dei viaggi interstellari, bensì un bubbone di fantasia cresciuto sul nostro pianeta, destinato ad esplodere in una fantasmagoria di allucinazioni, diffondendo uno spiritismo che fa le scintille. In quest'opera la mitologia cinese è servita come un pacchetto infiocchettato, o un gioiello tintinnante; è come un involtino primavera insaporito di filosofia, oppure un vaso Ming riempito di un fluido divinatorio. La storia è una sorta di mahjong a metà strada tra l'inferno dantesco e il videogame, in cui la tradizione si fa spettacolo ad uso dei non iniziati: l'oriente e l'occidente si fondono qui nel solito compromesso commerciale, nel quale la cultura di esportazione va incontro al turismo di massa. Chinatown è il microcosmo simbolo di questa ambigua unione: la democratica koiné cino-americana della superficie nasconde, nelle viscere del sottosuolo, un atavico e mostruoso scontro tra mondi inconciliabili. "Grosso guaio a Chinatown" è un film cinematograficamente molto denso, in cui il succedersi delle inquadrature ha la caleidoscopica variabilità degli sprazzi di sogno; la sceneggiatura, più che una successione di momenti narrativi, è un'animata galleria di suggestioni ottiche. Il racconto, pur nella sua severa coerenza, si evolve come un fuoco d'artificio che continua a ricaricarsi di energia luminosa, e la cui unica estetica è la (dis)armonia di una scoppiettante creatività visionaria.
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