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Radio America

Regia di Robert Altman vedi scheda film

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La recensione su Radio America

di FilmTv Rivista
8 stelle

L’America muore. L’America muore cantando, con ironia, con tenerezza, con acquietato rimpianto. Muore e sa di morire, sempre più vecchia e disincantata e attaccata alle sue radici, tra uno scialletto a crochet e un cappellone da cowboy, avviata al suo “sweet by and by” (più o meno, il dolce “tra poco” della canzone tradizionale eseguita da tutto il cast sui titoli di coda di Radio America, che fu anche un cavallo di battaglia di Johnny Cash), eppure ridente. Cominciamo dalla fine, da quel gruppetto seduto gomito a gomito nel diner alla Edward Hopper (citazione assolutamente letterale) dove si è aperto il film: un pugno di anziani cantanti folk and country da tempo senza fortuna, un detective privato dal nome improbabile (Guy Noir) che parla come nelle pagine di un pulp e si muove con la leggerezza maldestra di Cole Porter (l’attore è Kevin Kline), un entertainer radiofonico che, da quando gli hanno demolito il teatro e chiusa la trasmissione, fa il posteggiatore e non se la passa male. Sanno che l’Angelo della Morte li ha sfiorati, si è portato via il vecchio Chuck, e che prima o poi tornerà anche per loro; eppure, eterni ragazzini, nonostante le piccole rughe sublimi che increspano la bocca di Meryl Streep e i capelli troppo rossi e troppo ricci dell’irresistibile Lily Tomlin, hanno deciso di comprare un pullman con il quale portare il loro show in piazze decentrate e mai battute. Ci vogliono i giovani, quelli che fino a un attimo prima scrivevano poesie sul migliore dei modi per morire e che ritroviamo all’improvviso nelle vesti di yuppie attillati e determinati, per fermarli. Almeno per ora, almeno fino a quando Asfodelo (nome floreale per un Angelo dolcissimo, sfortunato e sontuoso quanto Lana Turner nel Postino suona sempre due volte) non arriverà per accompagnarli alla “beautiful shore” che li attende. A 81 anni, dopo la battuta d’arresto di The Company, Altman firma un capolavoro, un film felice, buffo e lieve sulla morte, sull’America, su se stesso. 105 minuti (poco più del tempo reale di una puntata della trasmissione radiofonica di Garrison Keillor, A Prairie Home Companion che, a differenza di quanto accade nel film, non ha mai chiuso), tre macchine da presa che girano contemporaneamente, 30 personaggi (compresi i musicisti, i cantanti, il rumorista e i tecnici abituali della trasmissione) e una ventina di comparse, un solo set (a parte gli stacchi, all’inizio e alla fine, nel diner di là dalla strada). Un’ora e mezzo all’interno del teatro nel quale la trasmissione va in onda dal vivo invece che tre giorni in giro per la città patria del country’n western: ciononostante, siamo a Nashville. Nashville trent’anni dopo, dove la paura e lo sbandamento di una nazione sono stati sostituiti dalla malinconia e l’allegria dei suoi “reduci”, avanzi di una cultura disfatta e sepolta, tanto profonda che si possono tranquillamente parafrasare i suoi canti tradizionali (ma anche le arie di Verdi) con i bad jokes dei cowboy canterini Dusty e Lefty (Woody Harrelson e John C. Reilly) o con i jingle pubblicitari della birra e della pizza (tutte invenzioni di Garrison Keillor, che è un sornione, disinvolto, onnipresente “padrone di casa”). L’improvvisazione (anima della radio) guida la narrazione; le tre macchine da presa di Altman pedinano i personaggi; i suoi zoom si avvicinano e si allontanano dai loro volti; gli specchi dei camerini, i vetri del palco degli ospiti che sovrasta la platea, le superfici lucide riflettono figure sullo sfondo, particolari dei primi piani, “fantasmi” di osservatori distanti e minacciosi (Tommy Lee Jones, il “tagliatore di teste” venuto al teatro per chiuderlo). Ci sono attimi in cui Meryl Streep fa riecheggiare la nostalgia fonda di Barbara Jean, sfortunata eroina in bianco di Nashville; e forse, quando accenna Softly and Tenderly davanti allo specchio, è Barbara Jean invecchiata. E Red River Valley che chiude trionfalmente l’ultimo spettacolo è l’equivalente, oggi, di It Don’t Worry Me, allora. Come dice la gente del Midwest: «Qui sono convinti che, se le ignori, le cattive notizie prima o poi se ne vanno». Vecchio saggio controculturale, ma innamorato della cultura del suo Paese, Altman ferisce ridendo e, tra i neri del Lungo addio, fa il suo film più surreale dopo California Poker. Lo spettacolo va avanti perché, come direbbe l’amaro cantore della giovinezza americana sempre evocato nel teatro (Francis Scott) Fitzgerald di St. Paul: «Diventare adulti è una cosa terribilmente difficile a farsi. È molto più facile passare da un’infanzia a un’altra infanzia». E da qui, in un volo di piumette come la dolce Cookie dell’altro suo ultimo film “sudista”, direttamente tra le braccia di Asfodelo.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 23 del 2006

Autore: Emanuela Martini

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