Regia di Robert Altman vedi scheda film
Si fa presto a dire capolavoro. Bisogna avere le idee chiare del cinema che si intende proporre, dei gomitoli di sceneggiatura da tessere con la macchina da presa, i dolly, i carrelli, i primi piani. Un’ordito a più strati, una maglia comoda fresca dentro e robusta fuori, di quelle che non si rovinano facilmente con l’uso. Anzi, col tempo si impara ad apprezzarne ogni trama, ogni cucitura, ogni lesione da usura, ogni macchia. Altman le idee chiare le ha, e organizza un film in tempo reale quasi, di quella trasmissione radiofonica che da 50 anni viene trasmessa in diretta da un teatro colmo di gente, di passioni, musica live e che la modernità che avanza mira alla distruzione senza alcuna pietà. E’ un film sull’ inevitabilità della morte, la consapevolezza della fine del ciclo che tutte le creature del mondo accolgono atavicamente all’interno delle cellule. E’ un film sulla gioia del vivere, del credere in qualcosa come ragione di vita e del cercare di trasmettere comunque quel messaggio, attraverso la passione. Le maschere della gioia e del dolore si scambiano continuamente sulle facce dei protagonisti inseguiti e catturati, moltiplicati dagli specchi dei camerini, lasciati morire a lume di candela. Una splendida sensazione di morte aleggia nel teatro, baluardo di ciò che non è più, roccaforte dei sogni e delle passioni ormai consumate, come un corpo umano è destinato al disfacimento. Intanto lo spettacolo va avanti, mentre il Tagliatore di Teste incaricato di rilevare il teatro assiste impassibile all’ultimo numero (un durissimo Tommy lee jones). Mentre si concludono gli ultimi scampoli d’amore, si chiudono i conti col passato, tra una canzone e l’altra (splendide le musiche e le canzoni) si snocciolano i dovuti e grotteschi spot pubblicitari, un angelo in impermeabile bianco reclama anime, un’improbabile addetto alla sicurezza hard boiled come un Marlow goffo come un Cluseau (Kevin Kline) indaga su chissà cosa, mentre porte si chiudono altre se ne aprono nel corso ininterrotto della vita e tutto finisce e tutto continua. Così come durante lo show uno della compagnia muore ma pronto a nascere è il bambino dell’assistente di scena. Tutto è una trasformazione in qualcos’altro, così come una tragedia può mutare in commedia, lo show andrà avanti anche senza teatro, senza luogo fisico, come uno spirito libero di città in città come un circo disegnato dalle facce dei protagonisti, dalla musica e dalle canzoni, dagli amori ritrovati. Come l’anima di una persona perduta si salva nel ricordo di chi l’ha conosciuta, amata, persa. E’ un Altman superbo questo di Radio America, maestro dal tocco leggero, ironico e disincantato, molto a suo agio tra palco e quinte affollate, camerini saturi di oggetti i cui visi degli attori vengono moltiplicati dai numerosi specchi presenti quasi a sottolineare i vari stati d’animo, le sfaccettature che compongono l’essere umano. E’ un Altman che a 82 anni sa bene di ciò che parla quando descrive la morte, la circonduce, la blandisce e sbeffeggia, le tende la mano e la conduce nel suo territorio, quello del limbo dell’equilibrio, della mediana che passa per le emozioni umane, le taglia a metà e le lascia lì tra riso e pianto, con un carrello ci gira in torno e con un dolly la abbandona alla bravura dei suoi protagonisti, per vedere che effetto fa suonare con la morte nel cuore. Si fa presto a dire capolavoro, si fa così: CAPOLAVORO.
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