Regia di Robert Altman vedi scheda film
Partiamo dall’inquadratura iniziale. Esterno, una tavola calda, chiaro riferimento ai quadri di Edward Hopper. Poi la voce narrante che inizia a raccontare una storia, come la si racconterebbe in un noir o in un film della vecchia Hollywood. Il passato. Siamo già immersi nel passato. Tramite una voce, tramite delle immagini.
Poi siamo all’interno dello studio (un teatro di posa) dove sta andando in onda l’ultimo spettacolo radiofonico di Garrison Keillor. Da questo momento iniziano ad intrecciarsi le storie (non tanto attuali, quanto legate nei ricordi, negli aneddoti, nella consapevolezza del tempo passato insieme) dei vari personaggi.
Robert Altman si affida al passato per costruire la sua narrazione. Un passato che non è nostalgia, rimpianto o celebrazione. Un passato che è pura malinconia. E la malinconia non porta mai dolore, ma solo la dolcezza del tempo vissuto che non potrà più tornare.
La malinconia di Altman è quella di un vecchio regista. Di uno che attraverso i suoi film è stato sempre dall’altra parte della barricata e che arrivando verso la fine del suo viaggio si è accorto di come il mondo, nonostante tutto, non sia minimamente cambiato.
Quindi deve essere stato molto emozionate per lui circondarsi di nuovo di attori (complici più che mai della riuscita dei suoi film) e creare con loro qualcosa. Una compagnia, dei rapporti, una comunità. Ecco quello che emoziona più di tutto, il senso di appartenenza, il calore dei legami umani.
Ideali ormai svaniti questi, frutto delle utopie degli anni sessanta, ma che ancora si muovono e fremono negli animi di chi quegli anni li ha vissuti veramente.
E allora tra le canzoni delle sorelle Yolanda e Rhonda, i bad jokes (meravigliosi) di Dusty e Lefty, i jingle pubblicitari e la musica folk e country si respira l’aria di un mondo che ha la sua ragione di essere solo nei ricordi. Un mondo destinato alla morte (ma chi non lo è), ma che verso questa fine viaggia sereno, senza violenze o dolori.
Ed ecco allora la figura dell’angelo, Asfodelo, vestita di bianco. Immagine ironica (si pensi a come è morta) e carica di dolcezza allo stesso tempo, che ha il compito di accompagnare chi ha finito il proprio tempo verso quello che non potremo mai conoscere. E che (in un gesto forse di utopica giustizia) allontana anche il “cattivo” di turno (interpretato da Tommy Lee Jones), ovvero colui che deve chiudere il teatro di posa per farlo demolire.
Altman, nella costruzione del suo film, si affida prima di tutto alle voci. Le immagini diventano solo qualcosa di complementare a quanto viene espresso principalmente attraverso la bocca. Che parlino o cantino, le voci tessono le fila del racconto e delle emozioni. Si ritorna quindi ad una forma di narrazione antica, quasi dimenticata. Quella narrazione che prendeva vita direttamente da chi raccontava una storia, senza il supporto delle immagini e di tutte le baracconate di oggi. E affidando la sua storia a più voci, Altman, esprime ancora una volta la sua idea di comunità e di pluralità, intese come valori fondanti di qualsiasi narrazione (oltre che di ogni forma di società).
Un ultimo spettacolo, quello di GK&soci, che non ha il sapore della sconfitta o della morte, ma solo quello della consapevolezza di come tutte le cose finiscano e cambino. Lo stesso GK sembra essere ben consapevole di questo. E la bellezza che trova nella radio è proprio quella di avere il potere di andare avanti, senza rimanere bloccata necessariamente dagli eventi umani (fosse anche la morte) e dai limiti che la vita stessa ci impone.
Qui il significato di una frase come “the show must go on” assume una nuova dimensione. Non tanto quella di fregarsene di quanto succede fuori o dentro uno studio, tanto quella di avere a disposizione un mondo che può essere costruito a proprio piacimento e che può superare con il suo stesso funzionamento quelli che sono i dolori e i turbamenti della nostra esistenza. Un mondo protetto nel quale costruire tutto quello che la società di oggi sembra rifiutare.
E allora l’America che ci lascia Altman è quella delle piccole comunità, delle molte parole e dei tanti ricordi. Segno che l’America odierna, per il regista, non ha più quello stesso fascino (e come potrebbe averlo?) di quella in cui lui è vissuto per tutti i suoi anni.
Radio America ci parla di quello che la vita alla fine ci riserva.
Di come ogni spettacolo finisce e ogni cosa cambia.
Ci parla di come un giorno noi dovremo andare da un’altra parte.
Con la speranza, magari, che qualcuno ci prenda per mano e decida di accompagnarci.
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