Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film
I personaggi di Sokurov provengono dalla Storia, benché ne siano, in realtà, i brandelli strappati. Sono individui spiaggiati al margine del mondo, in conseguenza dei Suoi fallimenti. Per loro coincidono deriva e ripiegamento, ritorno a casa ed esilio, perché l’esperienza dell’orrore, della sconfitta, del nonsenso ha definitivamente sradicato, dentro di loro, e quindi in ogni luogo, i presupposti stessi dell’umanità. Questo film si apre con la stessa cupa solitudine che, più tardi, circonderà il protagonista di Madre e figlio: il soldato Nikita rientra dalla guerra, ma il suo percorso ha il carattere di uno smarrimento senza rimedio. La terra è irriconoscibile, coperta da un paesaggio lunare, ed avvolta nella cretosa penombra di un torbido crepuscolo. Le voci del mondo, degli elementi naturali, delle persone, sono un coro dissonante ed ostile, che contrasta sgradevolmente con il silenzio interiore di chi sente di non appartenere più a quella comunità di esseri viventi. Le parole escono a fatica, in una immobilità che è separazione dalla vita, desiderio di trattenere il respiro per interrompere il flusso dei ricordi. Il passato è un racconto statico e sbiadito, come una vecchia fotografia in posa; è fatto di date, di eventi, di cronache quotidiane che hanno perso il colore delle emozioni, e servono solo a ribadire che tutto è finito. L’amore, le illusioni, la vigorosa freschezza della gioventù se ne sono andati per sempre, cancellati dagli stenti, dalla miseria, dall’indelebile consapevolezza che il male non ha limite, e che più è atroce, più lentamente uccide. Il cuore è il primo a morire: se ne accorge Nikita quando rincontra il padre malato e non ha voglia di parlargli, quando rivede Ljuba, la ragazza che gli piaceva, e non ha nemmeno la forza di sorriderle. Intanto nella sua testa sfilano i rimpianti da cui ha preso le distanze: una promessa di successo, ed una possibile felicità, che non esprimono più il dramma di una gioia mancata, tanto sembrano ormai assurde e irrilevanti, nonché coperte dalla coriacea patina della rassegnazione. Ljuba crede che Nikita si comporti così freddamente perché l’ha dimenticata; mentre, al contrario, a bloccarlo è proprio una memoria divenuta fissa e immodificabile, cristallizzata in un’istantanea fuori dal tempo che non prevede alcuna evoluzione. L’esistenza è ferma in un perenne staus quo affacciato sul nulla, come un’eterna sera che attende invano la notte. Cosa farai? chiede Ljuba a Nikita. Niente, risponde Nikita. Perché il domani non c’è. In guerra, sei mai stato ferito? domanda a Nikita il padre. No, mai, risponde Nikita. Perché anche il vissuto si dichiara assente, rinnegando il patrimonio di sofferenze che varrebbe a mantenerlo vivo, a renderlo importante. Nemmeno il dolore interviene più a salvare l’anima dall’azzeramento: la malattia di Zhenya porta una morte che non causa lutto, quella di Nikita un delirio che non diventa incubo. La dedizione di Lyuba, che lo assiste e piange al suo capezzale, testimonia una residua presenza dell’amore: un sentimento che si aggrappa all’impegno, alla fedeltà e alla costanza, non potendo più permettersi di abbandonarsi alle fantasie ed al romanticismo. Quell’affetto così concreto e ridotto all’osso è la roccaforte dell’ultima certezza rimasta in un universo devastato: quello in cui un matrimonio si celebra senza abito, né festa, né invitati, semplicemente andando in coppia a farsi apporre un timbro dentro un ufficio ormai in rovina. La dignità dell’uomo è lasciata sola, a bastare a se stessa, senza il conforto della follia, dei sogni, dell’incoscienza. Non c’è slancio nel donarsi, né entusiasmo nel fare progetti, e tutto è fermo alla constatazione che, come in un perpetuo giro di ruota, la vita deve comunque continuare, anche se non potrà mai andare avanti. L’incapacità di crescere e sperare conduce dritta all’imbarbarimento, al senso di inutilità, che ci estrania dai piaceri della vita e ci riporta all’acqua, al fango, alla terra, alla carne ridotta a materia commestibile e sanguinante, al caos in cui dimenticare la propria identità. La voce solitaria dell’uomo è il ruvido ritratto di un mondo desertificato dall’assenza di luce, in cui l’aria si fa spessa di sospiri profondi e di pensieri pesanti, diventando un ansimo che non è né poesia, né dramma, perché non nobilita la fatica di esistere, né prelude al sollievo della liberazione.
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