Regia di Herbert J. Biberman vedi scheda film
Puntuale all’impegno preso, eccomi a tentare di “concentrarmi sul ricordo” per buttare giù una “traccia” critica attendibile de “Il sale della terra” (consentitemi di continuare a citarlo con la più poetica ed appropriata traduzione del titolo originale, a mio avviso più ispirato e pertinente di quello adottato poi dalla distribuzione nostrana, quello “Sfida a Silver City” che gli ritroviamo appiccicato addosso, che a me pare quasi una “furbata” escogitata per mere ragioni di carattere di “attrazione commerciale”- non certamente un controsenso assoluto, ma in buona misura “fuorviante” e “inattendibile” (come succede troppo spesso qui da noi, in Italia) - capace persino di insinuare il sospetto in un osservatore esterno non particolarmente documentato, di trovarsi di fronte a una pellicola western!!!. Dunque “Il sale della terra”. Confermo che si tratta di una “tappa” fondamentale e importante, una “sfida” (beh, in fondo il termine non è poi del tutto fuori luogo, a quanto sembra, e nemmeno così astrusamente “estraneo” dopotutto!!!) al sistema e alle imposizioni dominanti, vittoriosamente concreta negli esiti (per fortuna), la conferma dell’importanza della caparbia determinazione nel dare anima e corpo a una impresa che poteva sembrare “impossibile” e nel sostenerla con coraggioso impegno fino alla fine. Un “messaggio di speranza” significativamente “positivista”, la concreta, documentata “prova” che non sempre il “potere” e la protervia (quello delle autorità costituite e dei gruppi di “controllo” ad esse legati) riescono davvero (nonostante i mezzi che hanno a disposizione) ad “appropriarsi del timone” e impedire la circolazione delle idee, se l’atteggiamento di chi si contrappone, dei “resistenti indomiti”, rimane fermo, grintoso, risoluto e coerente come in questo caso. Eravamo in pieno maccartismo, e gli anni in America erano bui e dolorosi, forse il momento più basso toccato da quella nazione (il recente, ottimo film di Clooney “Good Night, and Good Luck” consente anche ai più giovani di verificare “de visu” il clima da inquisizione, l’aria di autentica caccia alle streghe che incombeva pesante come una cappa impenetrabile e ostile, toglieva il respiro e la speranza). Biberman, il regista (che non avrebbe poi avuto in pratica altre occasioni attive per mettere in luce il suo talento e la sua carica eversiva) faceva appunto parte di quella famosa, tragica lista nera di epurati “eccellenti” passata alla storia come “i dieci di Hollywood” (e non era per altro l’unico fra i “sostenitori attivi” del progetto ad avere problemi al riguardo); la storia narrata, quasi epicizzata, si confermava scottante e attuale (per altro realisticamente cronicizzata su fatti realmente accaduti proprio in quel periodo, e quindi ancora freschi e “cocenti”). Le intimidazioni, il boicottaggio sistematico, le minacce e persino le violenze, furono allora costanti e continuative, si tentò davvero con ogni mezzo di “tagliare le gambe” al progetto (come sempre succede in questi casi), ma non furono ugualmente sufficienti per “affossare” la realizzazione dell’opera (nemmeno per “intimidire l’ardire” di chi aveva l’audacia di “osare”), un’avventura (consentitemi il termine) che poggiava le sue fondamenta (e questa probabilmente fu proprio la “molla” che consentì di uscire vincenti) su una insolita forma di finanziamento produttivo: i fondi dell’Unione minatori (indispensabili per garantire la continuità e l’indipendenza creativa nonostante le avversità) e la cooperatività del lavoro (tutti “alla pari”, dal regista al produttore, dai tecnici agli attori). Non riuscirono nemmeno a impedirne (seppure con ritmo frammentato e spesso “a scoppio ritardato”) la successiva distribuzione mondiale (analogamente fortemente boicottata in America, dove approdò in sala solo agli inizi degli anni ’60). Contribuirono anzi a creare la “miticizzazione” di un’impresa davvero titanica. Va subito ascritto a merito del regista che nonostante il clima e le ostilità che avrebbero potuto suscitare la reattività della “rabbia incontrollata e furente” e per questo disarticolata, fu la visione dell’affresco “ragionato” ad avere il sopravvento, e infatti le valenze sociali del discorso qui fortemente significative, poggiano su una solida base strutturale “artisticamente compiuta” che gli permette di “volare” molto più in alto, nonostante alcune ingenuità nella definizione di alcuni passaggi (che probabilmente oggi potrebbero risultare notevolmente accentuate). Non ci troviamo di fronte quindi a un semplice e “datato” pamphlet di carattere politico (e in fondo il tono del “comizio” era il “rischio” maggiore, poteva rappresentare il “limite” negativo capace di annullare la temerarietà della scelta), ma più concretamente possiamo invece “ammirare” una creazione “ariosa” e coinvolgente, una vera e propria opera di “realismo poetico” che (immagino) riesca ancora a mantenere inalterato, nonostante il tempo trascorso e le inevitabili “rughe”, il valore del suo messaggio “documentale” proprio grazie all’eccellente risultato complessivo che va ben oltre il semplice “fatto” raccontato (per quanto importante), perché investe tematiche più profonde e universali. Il pretesto narrante della vicenda (lo sciopero di un gruppo di minatori messicani per ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro, o almeno parità di diritti con i propri compagni, i “dipendenti stanziali”) ancora attuale e – purtroppo – irrisolto (se non aggravato) dall’evoluzione non proprio in positivo del mondo che ci circonda (lo sfruttamento indecente, mal pagato e senza diritti della mano d’opera degli immigrati ne è un esempio lampante), nascondeva in effetti, al di là delle sue evidenti suggestioni, notevoli insidie e pericoli, primo fra tutti quello della eccessiva, scoperta retorica, che poteva diventare, soprattutto a posteriori, un “pesante”, insormontabile macigno. Qui invece si parla di “lotta di classe” (ovviamente), ma andando ben oltre la sterile e scontata enunciazione di concetti e parole d’ordine di circostanza, perché si riesce in qualche modo (“aggrappandosi” ai personaggi, e sono sempre loro più che gli eventi che “fanno” la storia) a rendere “planetario” (e al tempo stesso “simbolico”) l’approccio, appassionando e coinvolgendo l’emotività dello spettatore. Il racconto si snoda mantenendo sempre in primo piano le vicende personali di una coppia fra le tante che animano il disperato manipolo di “diseredati” – quella di Ramon ed Esperanza – ed è spesso analizzando questa realtà circoscritta che vengono filtrate le ansie, le speranze, le amarezze e le contraddizioni di tutto il contesto, esasperate (ma non elementarizzate) dalle conseguenze vessative della impari lotta intrapresa dai minatori contro il sopruso e la prevaricazione. Non è quindi un semplice susseguirsi di slogan e picchetti o di cariche della polizia, ma un evolutivo viaggio anche di “crescita” individuale reso palpabile dalle modificazioni progressive che cambiano persino le percezioni e i rapporti dei due protagonisti principali (e non tutto sarà ovviamente rose e fiori, perché le avversità, le problematiche di coppia, persino il maschilismo imperante di Ramon, determineranno “crisi profonde”, apriranno ferite dolorose ma necessarie per la crescita e la ricomposizione dei rapporti, consentendo di passare dall’incomprensione anche aggressiva a una ragionata presa di coscienza più matura e produttiva). Ed è proprio attraverso l’analisi di questa complessità di affetti contrapposti, che prende corpo e sostanza la vicenda e che la violenza oratoria si trasforma in afflato poetico. Ramon è infatti un minatore molto istintivo, che ha uno spirito rivoluzionario profondamente radicato dentro di se, ma non sufficientemente metabolizzato, e la sua rivolta di fronte alle lusinghe di un fin troppo scoperto paternalismo o alle minacce brutali di una polizia scopertamente al servizio dei potenti, non è una contrapposizione “critica”, ma solo istintiva, esplicata con irruenza e coraggio perché avvertita come necessaria e imprescindibile, ma non ancora scaturita da una precisa coerenza ideologica. E’ inevitabile quindi che si “fidi” di più del suo istinto di classe, e che sia per questo più restio e “diffidente”, assolutamente incapace di lasciarsi tentare dai condizionamenti più burocraticizzati che i dirigenti sindacali tenterebbero di imporre. La sua formazione evidenzia per altro una supremazia sessista molto radicata (a sua volta “classista” e come tale “negativa” ed avversabile) che lo porterà ad assumere e mantenere spesso atteggiamenti di ingiustificata sfiducia nei confronti delle donne – moglie compresa – considerate - ancora e sempre - come esseri non paritari, magari da proteggere e difendere, ma non certo da stimare e “valorizzare” o da coinvolgere. Per questo osteggerà fermamente la costituzione dei picchetti al femminile (unica valida alternativa per poter proseguire la lotta) dopo l’ordinanza governativa che vieta agli scioperanti di essere attivamente operativi di fronte alla miniera, perché in qualche modo sente compromessa la sua concezione del mondo e inficiata la sua autorità di uomo, di marito e di padre. E il comportamento della moglie (le donne hanno sempre una maggiore capacità “di crescita” e di coerenza) determinata in prima persona ad unirsi alla lotta attiva prima timidamente espresso, ma poi in progressione sempre più deciso e determinato (finiranno persino in carcere per questo), lo addolorerà profondamente, gli arriverà impropriamente non come la prova amorosa del sostegno, ma al contrario lo percepirà come “un’intrusione innaturale” (e anche una prova evidente di mancanza di fiducia nei suoi confronti, quasi una “declassificazione” del suo ruolo), che lo offenderà rendendolo persino incapace di comprendere. Anche il “viaggio” della moglie verso la consapevolezza sarà duro e non privo di ostacoli (tutt’altro che scevro da profondi conflitti interiori) ma sarà proprio grazie alle avversità e alle sofferenze che riuscirà a sconfiggere gli ultimi pregiudizi arrivando ad acquisire piena coscienza di sé e dei suoi diritti e doveri. C’è al riguardo una scena particolarmente significativa che mi è rimasta indelebilmente impressa nella memoria, e che ritengo che possa risultare per questo, davvero “illuminate” e capace di indicare meglio di altre il “progetto” creativo dell’operazione: Ramon che (esasperato e furente per non essere più in grado di tenere a bada le “intemperanze” della moglie e incapace di utilizzare ancora l’arma della “convinzione” dialettica) alza la mano minacciosa e potente su di lei quasi a volerla picchiare, ed Esmeralda che per la prima volta non si ritrae terrorizzata e passiva, come era solita fare, ma anzi lo affronta con fierezza e dignità ritrovata, fermandolo così nel gesto. E - se non rammento male – sarà proprio da qui che rinascerà in entrambi una consapevolezza diversa più solidale e partecipata. Sono quindi proprio le incertezze e le debolezze dei due personaggi (emblematicizzati e universalizzati) a fornire lo spessore umano alla storia e a riempire di significati il percorso “accidentato” di un viaggio di crescita dove la loro vittoria (perché lo sciopero dopo inaudite vicissitudini sarà coronato dal successo) non ci viene mai presentata come ineluttabile e sicura, ma al contrario risulterà più volte in costante pericolo, spesso in procinto di trasformarsi in una cocente e definitiva sconfitta. Quello che invece risulta sempre in primo piano, è la consapevole certezza che se risultato positivo ci sarà, potrà essere raggiunto soltanto grazie a una costante tensione, ad uno slancio senza riserve che tenga alti e al di sopra di tutto proprio gli ideali e impedisca la mercificazione delle idee, ma che in ogni caso si tratterà sempre e comunque di un risultato parziale e non definitivo, perché la lotta continuerà ad essere lunga e cruenta (e i “tempi” ci hanno insegnato… purtroppo… persino involutiva… ma così va la storia degli uomini).
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