Regia di Henry Hathaway vedi scheda film
Ci sono essenzialmente due scorciatoie intellettuali che Henry Hathaway ha sempre dimostrato di aborrire,e sono,almeno a nostro modo di vedere,il messaggio e la metafora,e la chiarezza con cui questa convinzione si è palesata nel corso della sua carriera ha valorizzato e mai sminuito il rigore del significato,che egli ha sempre voluto e saputo distanziare dalla retorica dei due artifici pocanzi menzionati,senza che questo apparisse come una riduzione dell’espressione cinematografica.
Il Grinta non fa eccezione,pur nella sua veste di confezione di consumato mestiere,di spettacolo di cui si prevede buona parte degli sviluppi.
L'ellissi psicologica,avversaria dello psicologismo che di sicuro non gli faceva gola,nel cinema di Hathaway dava consistenza ai personaggi che non venivano utilizzati per scandagliare situazioni e personalità,ma li faceva emergere come caratteri in un’intenzione immediatamente espressa e dimostrata,per cui esiste la verità inconfutabile( almeno secondo i principi della loro mentalità) più che il motivo da interpretare,dovuta all’esperienza e alla memoria che se ne conserva e alla moralità che ne deriva.
La concentrata attenzione con cui Hathaway aggira il pericolo della dilatazione psicologica( pur patendo in questo la stanchezza di un dialogo spesso estenuante) gli permette di presentare i personaggi e condurli nella storia senza modifiche come esempi di due diverse età in cui,però,non si differenziano molto nelle loro concezioni(sono più simili tra loro di quanto non vogliano ammettere),mentre si fronteggiano e si assorbono a vicenda,prima che diventino stereotipi e mantenendo sempre il loro significato di archetipi;con l’eccezione forse di LaBoeuf,emissario di una realtà più lontana ma concreta,un uomo di domani più capace di contemplare anche la sconfitta.
Che si trattasse,come in questo caso,di una storia di vendetta (qui ammorbidita dalla richiesta di giustizia di una figlia per la morte del padre,giovane donna che esemplifica la propensione di Hathaway a mettere in scena sceneggiature in cui i personaggi femminili non fossero solo “spalle” ma precise individualità)o thriller d’atmosfera ambientati nella colossale ragnatela metropolitana(genere in cui Hathaway ha dato forse risultati migliori che non nel western),la sua messinscena privilegiava lo spazio di indefinita grandezza di cui i personaggi,figure in movimento all’interno di esso,non prendono mai possesso,ma nel quale sono autorizzati a conquistarsi momentaneamente un attimo di gloria sul quale,però,terminata la parentesi loro concessa,non dovranno rivendicare alcun diritto.
Il paesaggio autunnale nel cui abbraccio è tenuta la vicenda di regolamento di conti è lo scenario concesso da un disegno divino incontestabile che non si può interrogare ma si accetta così com’è,poiché l’ipotetica richiesta di una spiegazione sarebbe una trasgressione senza senso nei confronti del ciclo vitale ,che non ha basi dal quale partire né argomentazioni su cui poggiare:ciò che non si può imparare(o insegnare) non esiste,e ciò che non si è imparato forse non era necessario per vivere.
Anche il riscatto acquista un senso diverso,forse laterale,e l’assenza di interrogativi esonera anche il valore della pace interiore:gli uomini e le donne “sono” le loro azioni,e ciò che non si traduce in azione non ha valore di pensiero,presente solo nella sua estensione fattuale.
Le linee generali del cinema di Hathaway,rimaste immutate nel corso di quarant’anni di attività,qui si fanno ancora più elementari e placidamente scostanti,come all’epoca già succedeva a diversi registi della sua generazione(non ultimo Wilder),indifferenti all’aggressività con cui la cinematografia americana faceva irrompere nelle sceneggiature i travagli della contemporaneità con annesso discorso politico.
Salvati tutti questi aspetti,è giusto sottolineare che Il Grinta fa parte della fase largamente calante della vena di Hathaway,che non dava risultati più che dignitosi da tempo e non ne avrebbe dati in seguito,proprio per questa serena sordità alle nuove istanze cinematografiche e per aver reso monocorde il principio del distacco con cui sapeva raccontare con notevolissimi colpi d’ala l’impatto dell’etica senza ripensamenti che anima le coscienze dei personaggi e ne arma la mano.
E’ pur vero che chi è venuto dopo di lui non ha saputo fare di meglio(se ci si attiene alla sua produzione più brillante),o comunque non ha avuto la stessa continuità nella concezione di spettacolo di possente e laconica irruenza (“Sono un bastardo e so di esserlo”,diceva di sé),fedele a sé stesso nella volontà di irrobustire una verità professionale acquisita col tempo,anche quando il senso del passato si appesantiva,come succede qui,fino a sembrare superato.
Uno dei più affidabili mestieranti di Hollywood,un eccellente uomo di cinema che racchiudeva nel movimento la sua idea di spettacolo,con frequenti lampi di genio all’interno di un concetto dinamico di intrattenimento,la cui abilità era evidente anche in titoli di dichiarata stanchezza come questo.
L’ironica ombra di sé stesso,imbolsito e quasi pachidermico,con una stanchezza astiosa e sarcastica,impegnato a farsi corteggiare dalla bottiglia per cederle dopo pochi istanti.Come spesso è capitato,e ancora capita,l’Oscar è stato assegnato più all’icona che non all’interprete.
Presenza abbastanza anonima:il personaggio meritava una capacità di scavo che quest’attore diligente non ha.
Più giovane donna che adolescente ignara del pericolo della violenza scambiata per unica via che porta alla giustizia,ha la composta petulanza adatta al personaggio e la commozione ruvida che racconta a sé stessa che la paura non esiste.
Nella stesso momento in cui si vedeva Easy Rider partecipava in modo convincente ad un film di puro mestiere,dove risalta un terrore di giovane uomo che si affretta a chiedere la grazia.
Anche Duvall risulta ottimo nella sua cattiveria imperfetta e trattenuta
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