Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film
Un pastore di capre lascia la sua zona di origine nei Pirenei, dove sta per essere costruita una centrale nucleare, e si trasferisce con moglie e tre bambini in un villaggio piemontese dove si parla occitanico: il sindaco si adopera per favorirne l’integrazione, favoleggiando improbabili boom demografici, ma i paesani restano in maggioranza diffidenti verso quell’estraneo. La vicenda è prevedibile: una comunità piccola, chiusa, isolata, anziana e oltretutto appartenente a una minoranza linguistica espelle il diverso (se poi vogliamo vedere la cosa in termini economici, diciamo che l’inserimento di un’attività pastorizia in un territorio a vocazione turistica produce inevitabili attriti: mi viene in mente un western come La legge del più forte, con la sua contrapposizione fra allevatori di pecore e di mucche). Da parte sua il francese gioca a fare il buon selvaggio, filosofeggiando un po’ troppo per i miei gusti, ma sembra farlo apposta a creare problemi. Dunque il film evita di parteggiare per qualcuno, e la sua assenza di manicheismo può essere considerata una qualità, ma non si capisce cosa voglia dimostrare che non sia già implicito nelle premesse: presenta fatalisticamente la situazione come immutabile, quindi non invita all’accoglienza, e si dirige verso il finale più didascalico possibile. Certo, c’è la curiosità di ascoltare dialoghi in una lingua esotica, ma non griderei al capolavoro.
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