Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film
Conflitto di civiltà sullo sfondo dell’ambiente alpestre della Val Maira. Tanto spietato il conflitto quanto è bello e struggente il paesaggio di quelle montagne. Avendo il sottoscritto frequentato per anni l’alta Valle Stura e le vallate limitrofe (tra le quali la meravigliosa Val Maira, a mio avviso, è la più bella di tutte) ho ritrovato nelle immagini di questa pellicola ricordi di escursioni e quindi l’emozione è stata ancora più personale.
Ma oltrepassando i limiti dei propri ricordi, e cercando di collocarmi in una prospettiva più obiettiva, non posso che rilevare la bontà del lavoro di Giorgio Diritti, che sulla scorta di quanto già fece Ermanno Olmi dona un ruolo da protagonista alla civiltà contadina. Ma se nell’Albero degli Zoccoli si parlava del mondo rurale di oltre un secolo fa e lo si fa con lo sguardo pietoso di chi osserva quel duro vivere contadino da lontano, nel film di Diritti lo sguardo è quello attuale, l’osservazione di un mondo in via di estinzione che si aggrappa quasi con rabbia alle proprie tradizioni.
La vicenda è quella di Philippe, pastore francese ed ex insegnante votato alla riscoperta di una vita pastorale, che fugge dai Pirenei a causa della costruzione di una centrale nucleare (e qui propongo una doppia lettura, da un lato la paura per il degrado dell’ambiente ma dall’altro il rifiuto del progresso, rifiuto che non si intuisce subito ma nel corso del film quando la spinosa personalità di Philippe, personaggio per nulla incline al compromesso, appare ben delineata) e decise di trasferire il suo gregge sulle Alpi precisamente nel paese di Chersogno (luogo di fantasia, il nome è ispirato a quello di una cima della Val Maira).
Accolti inizialmente con una certa benevolenza, grazie anche all’interessamento del Sindaco Costanzo (forse il personaggio più “limpido” della vicenda) che si batte per far superare alla gente del posto le diffidenze verso lo straniero, Philippe e la sua famiglia finiscono per trovarsi avvolti in una serie di incomprensioni che mineranno la convivenza con la comunità locale fino ad un epilogo amaro.
Paradossalmente per un film così intensamente immerso nella natura, si svolge durante un viaggio in automobile uno dei momenti maggiormente esplicativi: la conversazione tra Philippe e Fausto (uno dei residenti inizialmente meglio disposti verso i nuovi arrivati) dove alle considerazioni del secondo sul fatto che il concetto di comunità è determinato dal parlare una lingua comune e dal condividere una storia secolare, il primo ribatte che ciò che conta è solo la convivenza “in essere” e che la storia non ha valore.
Qui viene delineata quella diversa visione del concetto di convivenza che porterà all’inevitabile conflitto di cui parlavo in apertura di recensione: da una parte chi pensa di poter essere accettato come è senza scendere ad alcun patto (altra scena brevissima ma altra chiave di lettura: Philippe che rifiuta di far benedire la propria casa al Parroco del paese) e dall’altra chi pretende un adeguamento alle proprie tradizioni senza il quale non vi è accettazione.
Diritti ha il merito di mantenere uno sguardo obiettivo, non ci sono buoni e cattivi, tutto è presentato in una serie di sfumature di grigio senza mai apparire o bianco o nero.
Philippe non merita certamente alcune cattiverie che gli vengono riservate ma è altrettanto vero che la sua intransigenza lo porta ad assumere atteggiamenti piuttosto discutibili e a trattare i locali come poveri sprovveduti. Sua moglie, in apparenza serenamente allineata sulle posizioni del marito, lancia invece segnali continui di insofferenza che sfociano poi in una tresca con Fausto. Quest’ultimo che nelle prime battute era parso il più amichevole e ben disposto verso il nuovo arrivati finisce per assumere una posizione più sfumata ed ambigua.
Anche il fatto che l'unico dei residenti che sembra integrarsi senza preclusioni con gli "stranieri" sia lo scemo del villaggio accende un altro spunto di riflessione: solo chi si pone nei confronti degli altri senza il peso di alcun retaggio culturale riesce veramente a comprendere il significato della parola accoglienza. Ma per potere essere in questa condizione devi essere uno fuori dagli schemi, un matto, uno scemo del villaggio appunto.
Credo che la scelta della comunità occitana non sia stata affatto casuale. Conosco bene ed apprezzo, sia pur da frequentatore esterno, la cultura delle popolazioni che orgogliosamente difendono la lingua d’Oc e posso assicurare che, al di là del fatto personale dell’essere più o meno aperti verso il “forestiero”, gli occitani tendono in generale a mantenere una certa chiusura verso chi non appartiene al loro mondo.
Un aspetto certamente legato all’isolamento linguistico che ha contraddistinti queste vallate, e che si è tramutato in una strenua difesa delle proprie tradizioni e della propria peculiarità culturale.
Concludo segnalando la scena del concerto, tratta da una esibizione reale dei Lou Dalfin, gruppo folk-rock di Sergio Berardo, brillante ed estroso musicista e uno dei maggiori promotori della cultura occitana. Consiglio vivamente un ascolto a chi non lo conoscesse.
E l'aura fai son vir ("il vento fa il suo giro", proverbio occitano)
Philippe: "A me la parola tolleranza non piace. Se tu devi tollerare qualcuno non c’è il senso di uguaglianza".
Fausto “Un popolo per essere se stesso deve salvaguardare la propria cultura, parlare la propria lingua. È la lingua che dice che delle persone hanno vissuto insieme per un migliaio di anni”, Philippe “La cultura nasce dalla convivenza, vivere insieme, giorno dopo giorno"
Ascoltate il suono della ghironda, il meraviglioso strumento della tradizione occitana
Una recitazione a volte un pò troppo didascalica.
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