Regia di Werner Herzog vedi scheda film
«Si ha l'impressione di planare sopra ogni cosa, di aver perso ogni contatto con la terra, di essere staccati dal mondo e dall'umanità. Mi sembra di trovarmi su una minuscola isola in mezzo ad un oceano sconfinato». (H. Buhl, Nanga Parbat,1953).
L'alpinismo è riattingere al seno della terra, confluire nel respiro del mondo, salire tra la gravità e il cielo. Il cimento smisurato con le creste e i precipizi del destino. E’ vitale morirvi, in una realtà che si erge ad austero e abbacinante prodigio. E’il recitare dell’uomo, o per qualche istante essere(-ci), nel ruolo di agonista puro,sovrumano, per poi tornare al dietro le quinte dell’attesa e della normalità. L’alpinismo è al contempo uno sport scaduto nelle pattumiere del cinismo, dello spettacolo, del dominio coatto sulla natura. Schrei aus Stein (Grido di Pietra), titolo splendido della natura-inconscio, è forse soltanto la storia di un’altra illusione, qui franata sui terribili obelischi rocciosi della Patagonia, di squarci che non si arrecano alla vita e al cinema, intorno a una frattura esistenziale che se ha rotto con l’origine, non giunge mai a compimento.
Tutt’altro che rara è l’indifferenza di spallucce varie (ed esili spalline) verso questo film che definirei sospeso, diseguale e disarmonico, forse impotente. Mancato. A parte le note riserve su fattori tecnici (sceneggiatura, recitazione e digestivi eventuali), è più insolito che si accenni ad altro: a quanto, in genere e nel caso specifico, sia proficua la contraddizione. Per il detrattore e l’ammiratore Herzog sembra essere sceso dall’alambicco della sua arte mistica e irrequieta, per ‘cercare senza trovare’ in un film a soggetto in parte rinnegato dallo stesso regista. Per chi lo conosce e lo vive, l’alpinismo resta purtroppo incompreso (dal film come enunciato), ‘totale’ più nella suggestione -ora stentata ora potente- che nell’e-vocazione, stretto nel registrato delimitante spazio, tempo e trascendente, e posto ai piedi del gigante Sublime come lo scalatore sotto la montagna. Fatte le dovute eccezioni delle (ottime) produzioni minori e indipendenti, il Cinema non è mai riuscito a dare vera testimonianza di uno sport assoluto che rimane inaccessbile al nostro tempo e alla sua sordità. E non solo per la diffusa maniera Alta tensione-Vertical Limit che fa dello spazio dell’alterità un contenitore di luoghi comuni. Per la pratica del set allora, che ha in quest’ultimo l’orizzonte inversamente proporzionale alla violazione ardita e poetica del limite naturale, dove, nello spettacolo dello straordinario e inaccessibile, il rischio e l’impresa assumono tratti sensazionalistici che nutrono la moderna fenomenologia dello choc avallata dal cinema in scala industriale. Poco ha potuto soprattutto, in altri casi, e in questo in particolare. Mentre si potrebbe dire dell’inquadratura, che pur ritagliando dovrebbe aver la forza di trattenere nuclei della totalità. O del montaggio, che pur frammentando potrebbe ritrovare i fili impossibili dell’unità perduta, o quelli misteriosi della ‘differenza’ del sentire e dell’ascolto. O dire dell’attore, che potrebbe per una volta smettere i panni del fantasmatico divo in celluloide e tornare fisiologica presenza. Nulla di tutto ciò in Grido di Pietra, che ha forse il merito maggiore nel ribadire l’irreciprocità di Cinema e Assoluto, la differenza, lo stacco incolmabile, se non per via miracolare. La difficoltà di cogliere nella forma l’osticità di tale materia, di per sé unicum e portento di spirito e ‘inorganico’. La montagna, forse l’ente che più sovrasta la cornice del mezzo tecnico. Perché non è (e non appare) uniforme, è potenza e scacco incombente, apparentemente circoscrivibile e mai conquistabile, ombra e rilievo, selvaggio dispiegarsi di ignota asprezza, paterna figura divina irriducibile. Di contro è questo un film quassi frettoloso, non ispirato, forse accidentato, scritto in modo anonimo, più incisivo nel dire della depravazione mediatica e spettacolista di uno sport che pareva al di sopra di dinamiche utilitaristiche, e certo, della volgarità dell’uomo contemporaneo, impermeabile e frigido consumatore di vane contingenze. L’incontro che doveva essere epocale tra l’esperienza e il regista più estremi, l’arte e la natura nelle loro più vaste implicazioni, non c’è stato. Eppure, liquidare frettolosamente questa pellicola sarebbe un errore. Grido di pietra è un ‘opera culturalmente interessante. Perché nel cinema di Werner Herzog anche le sconfitte sono rivelatrici, non meno dei successi. L’aspetto significativo, a più livelli, è proprio quello scarto, il dato negativo che il film introdurrebbe suo malgrado.
Anche in questo caso, come meglio altrove in Herzog, non si può eludere un discorso che implichi il rapporto uomo-natura. Da un lato quest’ultima come mezzo del dominio dell’uomo sulla realtà, territorio di conquista e volontà di potenza (in senso non nietzscheano, please), dall’altro lo spazio artistico dello slancio verso l’inviolabile, o da non violarsi. Il doppio tentativo fallisce sul piano della tecnica, soprattutto. Nel primo caso, l’ambito diegetico, sfuma clamorosamente il business barbaro ed egoistico di profani lanciati alla scalata di una marcia ambizione a suon di trapani, telecamere e capitali, funzionali all’asservimento-manipolazione della sfida/attrazione naturale (in un surrogato spettacolare della benjaminiana «tecnica prima»); nel secondo, in senso metalinguistico, lo scacco è quello del mezzo cinematografico, non all’altezza dell’ideale, né di ciò che è antecedente e oltre l’ideale stesso. Se la ‘vetta’ è raggiungibile dagli eroi della ‘finzione’, coloro che scalano il Cerro Torre by fair means, cioè lealmente, senza profusione di mezzi e tecnologie varie, dall’uomo diverso che conservi ancora uno spirito ‘religioso’ (Roccia) e soprattutto, dall’uomo che creda nel sogno puro e tramite il sogno preservi l’innocenza del rapporto con la realtà (Fingerless), non si può dire la stessa cosa per il cinema, che rimane nella speranza vana dell’etere estetico, e che solo a tratti, nel finale, pare poter cogliere e trasmettere la grandezza del terribile, la kantiana sublimazione del piacere negativo, che lambisce la pellicola senza mai sconvolgerla, senza impressionarsi (mi riferisco non solo all’’impersonale’ scalata di Roccia resa senza il dovuto pathos di tempi e sguardo, ma ancor più all’’ordinarietà’ dell’immagine, priva com’è di sentimento). Il film ‘non riuscito’ rimane a testimoniare non tanto l’identità mancata del cinema con il Tutto (che è in fondo utopica), ma la propensione al fallimento del linguaggio nel momento dell’esperienza più alta. La nota dolente dell’illusione di un’umana trascensione testimoniata dal mezzo cinematografico non trascesosi. Come se l’uomo potesse solo recitare e rappresentare il suo superamento, senza incarnarlo e condividerlo. Grido di Pietra vacilla, pur nel suo trascurabile peso culturale, e forse anche per questo (come una credibile ma stanca voce tra lande di ghiaccio del presente), come tensione della crisi e del gesto dinnanzi-verso il vuoto. L’arte di Herzog ha il pregio di affermare e toccare, in modo diseguale ma con piena vitalità (per via della sua sincerità), il ritmo di assonanza (affinità) e dissonanza (scissione tragica) tra l’uomo, il linguaggio, il mondo. Come già in Fitzcarraldo, l’ideale non incontra il mito, e il cinema herzoghiano è anche qui, appunto, un’arte tragica. E tragica è l’arte, non divina.
***½
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